15 ottobre 2014

musica – SCARLATTI E ISOTTA


SCARLATTI E ISOTTA

Alessandro Scarlatti (Palermo o Trapani, 1660-1725), Johann Sebastian Bach (Eisenach, 1685-1750) e François Couperin (Parigi, 1668-1733), appartenevano a tre famiglie “che si tramandavano da una generazione all’altra l’esercizio della professione musicale” (M. Mila); interessante è osservare come queste tre grandi famiglie – praticamente contemporanee – fossero rispettivamente una italiana, una tedesca e l’altra francese. Inoltre Scarlatti aveva solo un anno meno di Henry Purcell (nato e vissuto in Inghilterra, morto come Mozart a soli trentasei anni) ed era un po’ più vecchio degli altri due; ma curiosamente suo figlio Domenico (che finì per diventare prima portoghese e poi spagnolo) era nato lo stesso anno in cui nacquero Bach e Händel (quest’ultimo, per trovare nuovi spazi professionali, era di fatto diventato inglese), sicché a cavallo dell’anno 1700 questi pochi grandissimi musicisti occupavano praticamente l’intera area europea.

Imusica35FBnteressa anche osservare che Couperin ha vissuto sempre a Parigi, molto vicino alla Corte e alla nobiltà francese; Bach è stato un musicista altrettanto “stanziale”, avendo consumato la vita fra la Turingia e la Sassonia, in un raggio di qualche decina di chilometri; ma anche Alessandro Scarlatti, pur spostandosi in continuazione dalla Sicilia a Roma, da Firenze a Napoli (dove morirà ritirato “all’ombra Vesuvio“), non ha girato molto e ha vissuto sempre in Italia.

La storia comparata di questi tre musicisti offre anche altri spunti di riflessione; in particolare vale la pena di ricordare che mentre Bach tocca una ampissima gamma di generi musicali, dal sacro al profano, escludendo praticamente il solo melodramma, e mentre al contrario Couperin scrive quasi esclusivamente musiche per clavicembalo, Alessandro Scarlatti ha scritto ben 60 opere liriche diventando il padre nobile di questo genere e il fondatore della scuola napoletana e dunque in ultima analisi del melodramma italiano (ovvero del melodramma tout-court).

Tutto questo per dire con quanta devozione è stato accolto mercoledì scorso, 8 ottobre, all’Auditorium, l’Oratorio o “dramma sacro” Davidis pugna et victoria che Alessandro Scarlatti all’apice della sua fama ha scritto su un testo latino, pubblicato ed eseguito nell’anno 1700 per l’Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso di Roma, lo stesso anno in cui Arcangelo Corelli dava alle stampe la sua “Follia” e solo undici anni dopo la pubblicazione postuma del Dido and Aeneas di Purcell. Insomma un momento magico della storia della musica e un modo per capire le origini del melodramma, l’importanza della musica italiana nel vorticoso esplodere della musica dell’occidente europeo.

Non solo, ma la settimana scorsa vi era anche una particolare aspettativa per l’esecuzione affidata all’orchestra detta “laBarocca” e all’Ensemble Vocale con lo stesso nome che da una parte indica la stretta parentela con “laVerdi”, dall’altra marca la peculiarità di questi organici dedicati a un’epoca e a una prassi esecutiva molto specifiche e dunque particolarmente adatti all’Oratorio dello “Scarlattino” (come il grande Alessandro veniva chiamato nella Roma di fine secolo).

Anche l’argomento dell’Oratorio è allettante: si tratta, come dice il titolo, della lotta fra il piccolo Davide e il gigante Golia, una lotta impari cui vengono affidate le sorti della guerra fra Israeliti e Filistei, con le tensioni che si determinano fra i due schieramenti e fra i due contendenti; una situazione che non può non offrire fantastici spunti considerando il periodo in cui la musica iniziava un percorso di drammatizzazione fino ad allora poco conosciuto.

Io non so bene cosa sia successo, ma non posso fare a meno di dire che nonostante le premesse il concerto si è rivelato noiosissimo; sostanzialmente banale la musica, chiaramente “di circostanza”, poco sentita dall’Autore di opere memorabili come le Toccate, le Sonate, le Sinfonie, e ancor più ingenua e molto frammentata l’esecuzione, una serie di Recitativi e di Arie con saltuarie incursioni dei due Cori, tutti brani slegati fra loro e incapaci di costruire un dramma. Di drammatico non c’era nulla, nemmeno nel momento culminante in cui Davide atterra Golia e i due cori/eserciti intonano – in una sorta di duetto – i canti contrapposti della inebriante vittoria (in maggiore) e della bruciante sconfitta (in minore).

Probabilmente ha giocato a sfavore il fatto di disporre di soli sedici coristi (otto per coro) e di un’orchestra composta da altrettanti strumenti: troppo pochi per una sala grande come l’Auditorium e tenuti “in sordina” dai due direttori Ruben Jais e Gianluca Capuano. Troppo peso, per contro, hanno avuto le voci soliste del controtenore Filippo Mineccia (Saul), delle soprano Roberta Mameli (Jonatha) e Raffaella Milanesi (Davide), del basso Marco Granata (Golia) e del tenore Mirko Guadagnini (il “textus”); bravi tutti, ma accompagnati quasi sempre dal solo basso continuo affidato a due soli strumenti – un violoncello e un organo alternato a un cembalo – troppo deboli per costituire un vero sostegno armonico alle voci squillanti (specialmente quelle da soprano) che evocavano battaglie, vittorie e sconfitte.

Con grande sorpresa mi sono dunque imbattuto nei commenti di Paolo Isotta che – come sempre sopra le righe – prima, nel programma di sala, scrive che questo Oratorio “si eleva a un vertice che nella storia, quanto a letteratura oratoriale, non verrà più raggiunto” (e Bach? e Mendelssohn? mah …) e poi, sul Corriere della Sera del giorno successivo, che Jais “ne ha ricavato, da interprete, una versione autorevole, raffinata e al tempo stesso potentemente drammatica“. Viene da chiedersi se l’abbia mai ascoltato e se mercoledì scorso fosse davvero dalle parti di largo Mahler … .

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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