8 ottobre 2014
VITTORIO SGARBI
IL PUNTO DI VISTA DEL CAVALLO
Bompiani, Milano, 2014
pp. 148, euro 12,00
Vittorio Sgarbi, critico d’arte per eccellenza, ci presenta uno degli artisti più caratteristici del Seicento, tratteggiandone la personalità e lo stile, con una passione che travolge. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, nasce nel 1571, ma come molti geni incompresi, precursori di una modernità acerba per il proprio tempo, diventa celebre nel 1951, quando, alla mostra allestita a Palazzo Reale, a Milano, attira ben seicentomila visitatori, o almeno così vuole la leggenda.
Dove sta la forza in Caravaggio? A differenza dei suoi predecessori, che rappresentano la realtà rispettando la nobiltà e il decoro del contenuto, lui fotografa l’attimo, lo ruba al presente, immortalando espressioni di volti colte di sorpresa. Nella scelta temporale della cattura dell’azione sta la rivoluzione che il nostro artista avvia, sorpassando le visioni idealizzate di Raffaello e Michelangelo. I suoi modelli non sono fanciulle e gentiluomini della nobiltà italiana, ma soggetti scovati nei bassifondi: prostitute, pezzenti, ragazzini di facili costumi, popolani che lui trasforma in madonne, personaggi biblici e mitologici. La sua scelta è dunque una provocazione che mette in crisi non solo i valori tradizionali dell’arte, ma anche quelli etici e morali. È convinto che il regno dei cieli appartenga agli umili e non alle alte sfere del clero e della nobiltà.
Se c’è un autore del Novecento – dice Sgarbi – che ha una somiglianza psicologica con Caravaggio, quello è Pasolini, che nei ragazzi di borgata cercherà l’autenticità dell’esistenza. Vi ricordate, nel romanzo “Ragazzi di vita“, quando il Ricetto incontra Alvaro “con la sua faccia piena d’ossa, che pareva tutta ammaccata, e un capoccione che se un pidocchio ci avesse voluto fare un giro intorno sarebbe morto di vecchiaia“? Ecco, il Caravaggio avrebbe fotografato quel pidocchio sulla tela, così come riproduce, nella sua autenticità, la “Canestra di frutta“: una mela bacata, acini d’uva troppo maturi, le foglie vizze accanto a quelle verdi. Nell’opera “Il ragazzo morso da un ramarro” non rappresenta un soggetto in posa, ma la smorfia, l’alterazione dell’armonia del volto di fronte al dolore inatteso. Nel dipinto “La conversione di San Paolo” il cambiamento si percepisce partendo dal punto di vista. È quello del cavallo, che osserva Paolo, l’uomo disarcionato, steso a terra, in balia dell’animale. E nel “Bacchino malato” esalta l’incarnato giallo, le labbra secche del giovane, che hanno perso vitalità, per dimostrare che la realtà non è solo bellezza, ma porta con sé la violenza del vivere.
Sgarbi afferma che Caravaggio è l’unico pittore capace di guardare in faccia al male e alla morte. Anche alla sua. Dopo una vita scellerata, che lo porterà persino a uccidere un uomo, mentre si avvia a spegnersi, dipinge il suo ultimo capolavoro: “Il Davide con la testa di Golia“. La testa di Golia ha la sua stessa espressione, forse il suo autoritratto. È lo specchio della realtà, tragica e terribilmente vera.
Il saggio si legge in un soffio e di gran gusto, letteralmente non si può smettere, grazie all’abilità dell’autore, e non possiamo che commuoverci di fronte alla perfezione di quel pennello non più scindibile dalla vita del pittore “maledetto”, che ha toccato le verità più profonde dell’esistenza.
Cristina Bellon
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero