8 ottobre 2014

musica – UN REQUIEM PER ABBADO


UN REQUIEM PER ABBADO

È veramente difficile sottrarsi alla commozione per quanto è accaduto alla Scala venerdì e sabato scorsi, con le due recite della Messa da Requiem diretta da Riccardo Chailly in memoria di Claudio Abbado. Da anni non capitava di assistere a tanto impegno e a tanta concentrazione da parte dei duecento e più musicisti dell’Orchestra e del Coro del Teatro, di sentirli in perfetta armonia con il direttore e con i solisti, di vivere alla Scala uno di quei momenti magici e irripetibili che si vorrebbero eterni e che, quando finiscono, ci fanno sentire svuotati e inebetiti come quando scendiamo da una cima che non avremmo mai immaginato di poter raggiungere.

musica34FBSi è creata una incredibile tensione sin dal primo istante, quando Chailly è salito sul podio ed è rimasto quasi un minuto immobile, davanti alla “sua” nuova orchestra, nel silenzio assoluto del pubblico che gremiva sala palchi e loggione – non c’era un posto vuoto – e senza capire se era soltanto la necessità del direttore di concentrarsi, o un invito a tutti a rispettare il rituale minuto di silenzio in memoria del grande scomparso. Per non dire dell’attacco, quel pianissimo tanto misterioso e impercettibile che quasi non permetteva di capire se la musica era già iniziata o se l’orchestra stava ancora prendendo la misura.

Così, poco a poco, il “Requiem aeternam dona eis, domine” ci ha introdotto nel percorso che serve a Verdi per entrare in una dimensione altra rispetto alla realtà, a portarsi dalla vita terrena a quell’altra, sconosciuta e misteriosa, meditando sul passaggio dalla vita alla morte; Chailly prende per mano gli ascoltatori e sapientemente, con un crescendo di tensione e di brividi, li prepara e li accompagna verso la Grande Visione. Ed ecco che il cielo si squarcia improvvisamente e i tuoni e i lampi del “Dies irae, dies illa” squassano le nostre coscienze e ci sradicano definitivamente dalle poltrone, dalla sala, dal mondo reale. Ed qui che i direttori dell’orchestra e del coro hanno un’idea geniale: subito dopo i quattro squilli in fortissimo del “tutti” orchestrale, fanno alzare in piedi i 120 coristi, tutti insieme, contemporaneamente alla loro nota d’attacco. Un colpo di teatro di grandissimo effetto che rafforza incredibilmente la tumultuosa pagina verdiana che si ripeterà più volte, come un memento lungo tutta la Messa.

Questa Messa, come il Requiem mozartiano, sorprende per la sua profonda laicità; è noto che nessuno dei due grandi musicisti era credente o quanto meno credente devoto e attento alle questioni liturgiche; tanto che alla prima di quella verdiana ci fu un pasticcio diplomatico con l’autorità ecclesiastica per le contraddizioni fra i riti ambrosiano e romano. Più che testimonianza di religiosità il Requiem è una riflessione filosofica sulla morte, rappresentazione dello sgomento e dell’angoscia dell’uomo prossimo alla fine, pietà dei vivi per i morti. Verdi dedicò il suo Requiem ad Alessandro Manzoni per eseguirlo nella chiesa di San Marco nel giorno anniversario della di lui morte, nel 1874, e centoquarant’anni dopo Chailly replica l’intenzione dedicandolo al Direttore di cui all’inizio della carriera, proprio in quel Teatro, fu l’assistente. Una storia tutta milanese e tutta scaligera che rende onore al Teatro e alla Città.

L’altra sera alla Scala era palpabile la sensazione – condivisa da un pubblico molto interessato e concentrato, assai diverso da quelli delle prime delle opere liriche e degli abbonati e degli sponsor della Filarmonica – di trovarsi davanti a un sublime apice della nostra civiltà musicale, sia di ieri (la creazione di questa straordinaria opera) che di oggi (con l’eccelsa qualità della sua moderna interpretazione); una di quelle occasioni, ahimè rarissime, in cui ci si sente fieri e felici di essere immersi in un mondo capace di raggiungere vette tanto alte di creatività e di spiritualità e grati per poterla contemplare e godere.

Un encomio a parte va ai solisti: la soprano tedesca Anja Harteros e la mezzosoprano lettone Elina Garanča, due magnifiche cantanti che già due anni fa alla Scala avevano eseguito lo stesso Requiem diretto da Barenboim, hanno dato prova di grande maturità musicale non solo nelle parti solistiche ma sopratutto nei due duetti – del “Recordare” e dell'”Agnus Dei” – in cui il loro affiatamento è parso meraviglioso. Ottimo basso il pescarese Ildebrando D’Arcangelo che ha sfoggiato una voce di grande profondità nel commovente “Confutatis maledictis“, mentre il tenore americano Matthew Polenzani, che sostituiva l’attesissimo (soprattutto dalle signore, grazie alla sua nota avvenenza) Jonas Kaufmann, soprattutto nella prima parte è parso un po’ in difficoltà, con una voce poco verdiana.

Non posso chiudere questa nota senza dire che l’Orchestra e il Coro della Scala sono stati fantastici, dimostrando che quando vogliono possono arrivare dappertutto. Quante volte negli ultimi anni quest’Orchestra – che con i Berliner e i Wiener era fra le migliori d’Europa – ci è sembrata appannata, svogliata, con scarsa disciplina e poco impegno? L’altra sera era perfetta. Sarà stato solo merito di Chailly? E il coro? Sdoppiato nella “Fuga a due Cori” del “Sanctus“, con Chailly che, deposta la bacchetta (lo ha fatto più volte, quando raccontare la musica diventa più importante che imprimerle un ritmo), ha letteralmente tolto il fiato al pubblico. Ma soprattutto grazie al suo direttore Bruno Casoni che ne ha fatto un miracolo di sorprendente classicità (si sentiva il respiro bachiano) e insieme di modernità (un ritmo fortemente serrato).

Ha osservato l’amico Silipo che Chailly ha esaltato la struttura lirica del Requiem con il coro e l’orchestra tesi a mettere in risalto le parti solistiche, la narrazione, la drammaturgia, grazie ad accorgimenti come quello di non staccare tra loro tutte le singole parti dell’opera ma di dividerla solo nelle due parti essenziali: prima Requiem aeternam, Kyrie e Dies irae, poi – dopo una pausa breve ma significativa – Offertorio, Sanctus, Agnus Dei, Lux aeterna e Libera me. Potrebbe sembrare poca cosa ma l’effetto è stato tale da far sentire l’intero impianto dell’opera più verdiano del solito.

Non vorrei fare della polemica fuori luogo, memore oltretutto di un passato recente non sempre glorioso – anzi – del nostro grande Teatro lirico, ma questa straordinaria esecuzione è sembrata quasi una risposta allo sconquasso della vicenda dell’Opera di Roma; e Chailly non poteva cominciare meglio la sua nuova stagione, quella che tutti vorremmo tornasse al decoro, alla serietà, alla professionalità e all’altezza dell’epoca di Abbado, superando di un balzo quelle che gli sono succedute. Lui c’era, se ne ricorda, e con queste due serate ha dimostrato di poterlo fare. Intanto diciamo grazie a lui, a Casoni, alla Scala e al pubblico milanese che ha contribuito con grande consapevolezza e partecipazione, dimostrandola – come ha scritto Girardi sul Corriere il giorno dopo – con il “lungo bellissimo silenzio prima dello scoppiare degli applausi” che, aggiungo, sembravano non finire mai.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema


9 aprile 2024

VIDEOCLIP: LA MUSICA COME PRODOTTO AUDIOVISIVO

Tommaso Lupi Papi Salonia






20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola



23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Paolo Viola


Ultimi commenti