1 ottobre 2014

MILANO COME COMUNITÀ: SE PARLARE DI SUICIDI VUOL DIRE PROGETTARE IL FUTURO


L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha divulgato nei giorni scorsi una statistica sui tassi di suicidio a livello globale. I risultati sono stati ripartiti in quattro insiemi corrispondenti ad altrettanti tassi di suicidio ogni centomila abitanti. Sulla cartina ciò è evidenziato da colori sempre più scuri e carichi in rapporto al lievitare delle cifre.

06telesca33FBSi evidenzia come paesi ricchi e benestanti soffrano di alti tassi di suicidi. USA ed Australia, ad esempio, rientrano nella fascia di allarme con un tasso di 10/14,9 decessi ogni centomila abitanti. Un dato condiviso con paesi europei quali la Francia, l’Olanda, la Svezia e la Finlandia.

Ancora più preoccupanti i numeri che caratterizzano i paesi emergenti, quali ad esempio Russia e India: qui si supera il muro dei quindici suicidi ogni centomila abitanti. Un dato che certamente risponde a differenti cause di natura economica, sociale e culturale: basti pensare che nel subcontinente indiano il suicidio è illegale, con una stigmatizzazione volta ad escludere la famiglia di chi compie il gesto più estremo. Più in generale l’OMS rileva che il suicidio è stata la seconda causa di morte nell’anno 2012 nella fascia di età compresa tra i 15 e i 29 anni; la quindicesima causa di morte a livello complessivo.

Numeri tragici, che nascondono un oceano infinito di storie, vite, legami, amori, tradimenti, delusioni. E l’Italia? Fortunatamente siamo tra i paesi definiti dal colore più chiaro, con un tasso di suicidi inferiore a cinque ogni centomila abitanti. Un dato che corrisponde con quanto accade nella nostra Milano, rivelato dall’ultima statistica ISTAT presentata nel 2010. In quell’anno, nel capoluogo lombardo, si sono accertati novanta suicidi e centosettantacinque tentativi; corrispondenti ad un tasso del 2,9 e del 5,6 individui ogni centomila abitanti.

Trarre una morale dai freddi numeri è sempre lavoro ostico, talvolta un’impresa di pura fantasia influenzata dalle convinzioni di chi vi si intrufola. Eppure alcune riflessioni sono d’obbligo.

Come poter dimenticare l’incidenza sui dati presentati dei suicidi (riusciti o tentati) nel contesto carcerario? Un dramma a cui non si vuole porre rimedio, lasciando a singole misure emergenziali il compito di sgonfiare (temporaneamente) la bolla del sovraffollamento delle carceri. Mai per ragioni di politica penale e criminale di medio e lungo periodo: ciò che più sta a cuore sono le sanzioni che l’Unione Europea, a ragione, ci impone di pagare per il trattamento disumano e degradante a cui vengono sottoposti i detenuti.

Un fatto concreto, una lama affilata che incide la città di Milano, nel cui centro storico è situato il carcere di san Vittore, uno degli esempi più eclatanti di mala gestione in fatto di diritto penitenziario. Salvo poche eccezioni, il tema non pare trovare spazio nelle fitte agende della politica. La rivoluzione del sistema carcere così come pensato in Italia, reperto di una impostazione autoritaria che collide con il garantismo dei nostri codici, è di là da venire.

Nemmeno i suicidi causati dalla crisi economica possono essere dimenticati. Non solo per il numero di persone coinvolte, ma perché è tragedia che unisce e livella lavoratori e imprenditori, disoccupati e liberi professionisti. Un meccanismo perverso di giustizia sociale messosi in moto da quasi un lustro, che nessuno riesce a fermare. La politica cerca soluzioni, provare a trovare sponde in tecnici esperti e navigati, nel disperato tentativo di uscire dalla morsa del rigore economico autoimposta. Come voler curare il malato iniettando dosi massicce di virus. La lungimiranza, anche in questo caso, non è virtù dei nostri amministratori.

In tal senso è da lodare l’impegno profuso dalla Giunta del Comune di Milano per far collidere le esigenze di bilancio con la garanzia di servizi alla cittadinanza e, in primis, alle persone. Numerosi progetti per il lavoro sono stati avviati, nuove reti di sostegno all’imprenditoria hanno preso forma. Una necessità insuperabile per Milano, che ha saputo nel contempo accogliere negli ultimi mesi migliaia di rifugiati provenienti dai più cruenti scenari di guerra. Un fatto che dovrebbe rendere orgogliosi tutti i milanesi che, inclini alla polemica, hanno potuto trovare qualche ragione in più per sorridere.

Forse è proprio questa la morale: parlare di suicidio vuol dire ragionare della vitalità (o del suo desiderio) che vi si cela, del grido di aiuto lanciato. È dovere di tutti noi, e innanzitutto di chi ha ruoli pubblici ed istituzionali, raccoglierlo con largo anticipo per mettere in campo gli strumenti necessari al fine di garantire una risposta. Il silenzio di una città, di una comunità, è la vera sconfitta.

 

Emanuele Telesca



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