1 ottobre 2014

libri – MORTE DI UN UOMO FELICE


GIORGIO FONTANA

MORTE DI UN UOMO FELICE

Sellerio editore Palermo, 2014

pp. 280 euro 14

Premio Campiello 2014

 

libri33FBL’elemento determinante della felicità umana consiste nell’autorealizzazione virtuosa, vale a dire nel cercare di coltivare, secondo la nostra particolare virtù umana (la ragione) e nella giusta misura, le facoltà che ci distinguono da tutte le altre creature per realizzare ciò che ogni uomo ha dentro di sé, il proprio daimon. (Aristotele)

Per questo Giacomo Colnaghi, sostituto procuratore di anni trentasette, è un uomo felice. Il suo daimon è quello di creare un ordine giusto nell’anno del Signore 1981, quando, nel mese di febbraio, Luigi Marangoni, direttore sanitario del Policlinico, è ucciso dalle Brigate Rosse; nel mese di marzo viene arrestato il loro capo, Mario Moretti e vengono assolti tutti gli imputati della strage di Piazza Fontana; nel mese di novembre Eleno Viscardi, agente della Digos, morirà per mano di Prima Linea.

Di queste azioni resta precisa memoria nel romanzo, che si apre sull’omicidio del chirurgo Vissani (leggi Luigi Marangoni) e si chiude sull’assassinio di Colnaghi; fra i due punti si snoda l’indagine del protagonista, che rappresenta la trama il cui ordito – più corposo e avvincente – è la ricerca della vera ragione per cui egli è quello che è, e fa quello che fa. Questi due percorsi, narrati in serrato contrappunto, si snodano in alternanza con la storia del padre, il partigiano Ernesto ch’egli non ha mai conosciuto, ucciso dai militi fuori della caserma di Mozzate.

E dietro c’è un’altra storia ancora: quella di un’Italia di piccoli uomini che giocano a fare gli eroi, che si prendono il diritto di uccidere in nome della legge, in nome della rivoluzione, in nome della vendetta. Un Paese che non sa dove sia la legge, per chi si faccia la rivoluzione, quale fine raggiunga la vendetta. È per questo Paese che egli vive solo, in un mini appartamento, a Milano; e rinuncia al rapporto con sua moglie, a seguire i suoi figli, a star vicino a sua madre, che non aveva compreso il senso dell’azione del marito, e non potrebbe comprendere le scelte del figlio:

Se solo avesse potuto spiegare a sua madre, a chiunque, cosa significava voler conoscere la verità. Contribuire anche minimamente a creare un ordine giusto. Se solo avesse trovato le parole per dirle che questo non dipendeva da un astratto dovere ma da un bisogno fisico, che gli veniva dalle viscere, un po’ come innamorarsi o desiderare un bel piatto di pasta: e che ogni ripensamento e timore erano lampi momentanei: perché solo così era felice.

Giacomo cerca di dare un senso agli eventi, procedendo con rigore e, insieme, con compassione: “Avrebbe salvato chiunque”. Per il suo personaggio Fontana dichiara di essersi “ispirato a due magistrati democratici e di grande valore morale, entrambi uccisi da Prima Linea: Emilio Alessandrini (1979) e Guido Galli (1980)”. È la dimensione etica, quella che gli interessa: l’ethos che potrebbe portare al regno della ragione, dove la vendetta è interrotta e la giustizia ristabilita. Così mette progressivamente a fuoco il daimon che muove Giacomo e che lo “costringe” a proseguire nella ricerca della verità sordo agli affetti, ai ripensamenti, alle paure.

Quel demone aveva mosso il padre in fabbrica, sino al furto e alla distruzione delle tessere annonarie: era stato impossibile fermarsi, arrivando a precipizio (e consapevolmente) al momento della morte, in cui “il mondo l’avrebbe giudicato come uomo”. Impossibile fermarsi anche per Giacomo: ma è un moto più quieto, meno convulso e meno eroico, in apparenza. La morte per lui giunge improvvisa, mentre slega la bicicletta dal semaforo, in un piccolo gesto di banale quotidianità:

Si voltò con la chiave della catena ancora in mano: erano due uomini con il volto coperto da una sciarpa di cotone. I proiettili partirono uno dietro l’altro, e nell’onda che lo spinse indietro agitò solo appena le braccia. Sangue. Alzò lo sguardo e poi lo abbassò di nuovo e cadde a terra senza riuscire a proteggere la testa nell’impatto, senza più alcuna influenza sul proprio corpo.

Siamo fuori del bar Pandolfi, in Via Casoretto, una zona di periferia, tra Via Porpora, Via Palmanova e Piazza Udine: qui l’anti-eroe Colnaghi, in una morte non eroica, per la quale non aveva potuto prepararsi e recitare alcuna parte: (…) un lampo improvviso lo lacerò da cima a fondo: un ultimo, insostenibile rimpianto per la vita che gli restava da vivere e il desiderio che ancora provava (…) rimettere a posto ogni cosa, essere infine l’uomo che si sforzava di diventare: no, no, no, voleva ancora tempo, ancora tempo! – l’indomito, ottimista, inguaribile Colnaghi. Ma tempo non c’era.

Ma è proprio questa morte precoce, ingiusta, improvvisa a farne un eroe. Colnaghi muore in battaglia, giovane, in un agguato che sapeva sarebbe arrivato: ma non come e quando. Nell’attesa aveva cercato una ragione forte per vivere e l’aveva trovata: era stato un inquieto cammino che Fontana costruisce con misura e una eccellente qualità scrittoria.

Ma al lettore giunge molto di più di una storia ben costruita; arriva quello che Giacomo non avrebbe saputo spiegare a sua madre: conoscere la verità è un bisogno fisico, che ha l’urgenza del respiro; e creare un ordine giusto è l’unica strada per la felicità.

Giuliana Nuvoli

 

 

 

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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