24 settembre 2014

PUÒ UNA CITTÀ ESSERE BUONA SE LA SOCIETÀ CHE LA ABITA DIVENTA INFERNALE?


Premessa. La nascita della città metropolitana coincide con la fase di cronicizzazione della crisi. Da essa non usciremo, a meno di intraprendere un nuovo corso che ci rimetta nell’alveo di una democrazia vissuta e partecipata dall’assieme della popolazione con più cuore e con forti idealità. Emblematicamente possiamo chiederci: la città metropolitana di Milano apparterrà al vecchio e, per quello che dirò, folle ordine delle cose presenti o, seppur faticosamente, sarà segnacolo e strumento di una presa di coscienza, che porrà l’imperiosa necessità di “cambiare verso” alla storia? Milano metropoli sarà la città dell’inizio o sarà città della fine? Città della resa o città che non ci sta? Città dell’abisso o della (faticosa) risalita?

08calaminici32FBIl Gruppo Petöfi alle prese con l’ossimoro. L’anno scorso, poco prima del suo ultimo congedo, Guido Martinotti, intervenendo su questa stessa testata, che usava ospitarlo abitualmente, metteva in guardia contro un approccio troppo facile e disinvolto alla nuova realtà urbana, di cui ci stiamo occupando, a cominciare dall’uso dello stesso termine città-metropolitana, l’ennesimo fuorviante ossimoro prodotto dal burocratese. La forma metropolitana, precisava, è un tipo d’insediamento nuovo e diverso da quello urbano o cittadino. Non si è vista poi l’ombra, né nel testo di legge e nel dibattito parlamentare, né tampoco nello stento dibattito pubblico che ne è seguito, di quello sforzo teso ad acchiappare la peculiare natura di quell’entità che sempre Guido Martinotti proponeva, per evidenziarne la sfuggente novità, di chiamare meta-città.

Il Gruppo Petöfi, i cui articoli Arcipelago ospita regolarmente da qualche mese nella rubrica “Dialoghi sulla Città Metropolitana”, nasce sulla base di questa consapevolezza, della necessità cioè di “nutrire la città metropolitana” con il suggerimento di qualche angolo prospettico diverso, avanzando qualche dubbio, tentando di mettere in circolo qualche idea critica e qualche proposta, cercando di stimolare una discussione pubblica che vada oltre la “gabbia amministrativa” (sempre Martinotti) “del mentecatto burocrate” (De Finetti).

A cogliere analiticamente la tensione, e il conflitto anche, che legano i due termini, città e metropoli, sono intesi in particolare i contributi venuti da Giancarlo Consonni. La locuzione città metropolitana – egli scrive – è piuttosto recente … I due termini non sono sinonimi. Semmai, se si guarda alle logiche e alle tensioni costitutive, si tratta di realtà in conflitto. Città ha a che vedere soprattutto con le relazioni di prossimità … I luoghi urbani sono per eccellenza i luoghi del vivere condiviso, luoghi sicuri in quanto presidiati naturalmente, quotidianamente dagli abitanti della città. La città esiste in quanto sistema di luoghi ed è la qualità dei luoghi, e il loro costituirsi come spina dorsale dei tessuti insediativi, a fare la qualità delle città. L’altro versante è quello della metropoli …

Ora, nel dibattito seppur ristretto, fin qui avvenuto un certo peso hanno avuto gli argomenti che tentano di cogliere i nuovi caratteri della morfologia fisica della città metropolitana, con la dinamica tensione tra la città classica, con il suo core: la piazza, il Duomo, il broletto, e la metropoli economica. Una minore attenzione mi sembra di cogliere invece nei confronti della morfologia sociale come si va rapidamente trasformando sotto la spinta prepotente, ulteriormente accelerata in questa fase di crisi, degli interessi e delle esigenze del neocapitalismo finanziario. E’ anche, o soprattutto, su questi aspetti che ritengo di richiamare l’attenzione.

Le mie domande. Quali sono, mi chiedo, le caratteristiche essenziali che emergono nella società di oggi e sono sotto i nostri occhi? Accentramento della ricchezza e del potere in poche mani, in quelle della società dell’1 per cento, secondo la definizione precisa e fortunata di Occupy Wall Street; messa in questione delle basi democratiche delle società occidentali avanzate; spietata disuguaglianza sociale, restringimento dei diritti, abbattimento del welfare state. Il delinearsi sempre più chiaramente di una società dei mezzi senza i fini (Giorgio Agamben).

Secondo Saskia Sassen è in atto una “pulizia etnica” nei confronti della parte di popolazione più fragile. Nel suo ultimo libro Expulsion (in fase di pubblicazione presso il Mulino), l’autrice di Città Globali sostiene che una parte rilevante della popolazione, venti/venticinque per cento, compresa una quota di ceto medio, è espulsa dall’economia e dal “contratto sociale”, fuori dal mercato, priva di mezzi per comprare o vendere, quindi ininteressante, anzi sostanzialmente inesistente, insomma dei paria, il grado più basso di una neosocietà castale. Al contrario, al grado più alto, alla casta dell’1 per cento, e meglio ancora dello 0,01 per cento, affluiscono ricchezze sempre più abbondanti e, va da sé, totalmente sproporzionate.

Si chiede, ancora la Sassen, in un articolo sul Manifesto: “… Perché l’Europa ha gestito la crisi di questi anni nel modo in cui l’ha fatto? L’obiettivo era salvare la finanza, le multinazionali e la classe politica – a spese dei lavoratori, delle piccole imprese e delle economie locali. In sostanza, la strategia è stata quella di tutelare i proprietari di grandi capitali e di scaricare i costi sul 20–30% più povero della società. La storia degli ultimi vent’anni è fatta di aumento dei profitti, caduta delle tasse sulle imprese e del gonfiarsi dei deficit pubblici”.

Come ci informa Federico Rampini (nel suo recente Banchieri, Mondadori 2013) gli economisti Emmanuel Saez e Thomas Piketty calcolano che “il 93% dei guadagni della “ripresa” (americana) sono andati all’1 per cento dei più ricchi”, e lo 0,01 per cento ha sequestrato il 37 per cento di tutti i benefici della miniripresa in corso. I capital gain sono tassati al 15%, il che induce Warren Buffet, l’uomo più ricco d’America assieme a Bill Gates, a dire: “pago un’aliquota fiscale inferiore a quella della mia segretaria”. The Economist afferma in una sua ricerca che: “la parte del reddito nazionale che va all’1 per cento si è raddoppiata rispetto agli anni ’80”. Ma ancora più sconcertante è la parte che va allo 0,01 per cento, la loro fetta della torta si è quadruplicata”.

Come si dice, gli dei accecano coloro che vogliono perdere. In questo caso gli dei stanno accecando gli uomini in generale. Siamo al rovesciamento di ogni possibile etica, e siamo nel contempo alla costruzione di un meccanismo economico che non funziona (la crisi è questo) e non può, per logica ed esperienza storica, funzionare. Se ne accorgono perfino i più intelligenti dei superfortunati, non solo Warren Buffet.

Economia senza filosofia. Ho nella testa l’eco potente del Magnificat (in particolare quello di Monteverdi) e le sue parole: “Deposuit potentes de sede, exsaltavit humiles”, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Potremmo, alla luce di quanto detto sopra, ma soprattutto del diluvio di dati a disposizione, affermare che il capitalismo dei banksters (appropriato neologismo, fusione delle parole banchieri e gangsters) ci pone di fronte al rovesciamento antitetico e più impudente delle stesse basi della civiltà cristiana e, volendoci spingere oltre, che quasi sembra di stare per oltrepassare la soglia della “società dell’Anticristo”. Nello stesso tempo, e legittimamente aggiungo, potremmo dire di assistere anche al rovesciamento del principio di ragione, cioè all’annichilimento del fondamento greco della nostra civiltà.

Ora, vista la situazione e gli effetti, io non dico che Dio non esiste o che sia distratto, che si sia nascosto e sia introvabile. Dio, per me, non esiste come una cosa e neppure come un uomo. Anzi, Dio, sempre secondo me, neppure esiste, e non deve neanche esistere, come entità reale. Ma l’idea di Dio, nel senso in cui l’intendo, è l’essenza più propria dell’uomo. Ed è l’idea di ragione, se questa è intesa come permanente ricerca di una verità che, anch’essa non esistendo come una cosa, pur sempre apre alla possibilità della sua ricerca e del futuro. E se è vero che l’attitudine più “naturale” dell’uomo è quella di essere progetto sempre aperto, l’invito della ragione è a riplasmare il mondo, di cambiarlo di generazione in generazione, per avvicinarlo alla visione sempre diversa che ciascuna ne ha. Ripensandolo, certo, da dentro alla cultura che si ha già, ma nello stesso tempo per fuoriuscire da essa. Dio-Ragione, insomma, come tensione costante verso un futuro che non è scritto nel passato (anche se il nuovo non si costruisce nel vuoto) e verso la storia che si fa e si rifà sempre. Altro che fine della storia e fine delle ideologie!

Questa sì che è pessima ideologia e consapevole inganno a danno dei molti che sono psicologicamente disarmati e gettati nella rassegnazione. L’attuale “società dei mezzi senza fini” produce così questa somma alienazione: l’espropriazione degli uomini della loro natura teleologica; della loro costante vocazione a dare senso e significati alla vita e al mondo. Economia senza filosofia (non in senso stretto), questo descrive bene la situazione: abbondanza straripante di mezzi (quanto ingiustamente distribuiti!) e penuria di fini. Ma come ancora una volta osserva Giancarlo Consonni “il ragionamento sui fini è stato posto sotto ricatto: classificato come ideologia e messo all’indice. Anche sulla Città Metropolitana non si ragiona sugli obiettivi mentre ci si accanisce su architetture istituzionali fondate sul nulla. La legittimazione democratica è importante, ma senza una presa di responsabilità sui fini è una scatola vuota”.

Populismo e democrazia. Si afferma la forza, e la debolezza soccombe senza lo scudo del diritto, dice icastico Gustavo Zagrebelsky. Così assieme all’austerity, continua sottrazione dei beni legati al “contratto sociale”, s’insinua il fascino tutt’altro che discreto del putinismo: populismo senza piazze oceaniche … tentativo di consolidare il capitalismo senza bisogno di abbracciare i diritti civili; in generale convinto che rafforzare la leadership sia condizione necessaria per avere ordine sociale e benessere (Nadia Urbinati). Da noi certo c’è più finezza, non abbiamo le cattive maniere dell’orso russo, e infatti, sempre Zagrebelsky, parla di governo stile executive. Non di meno, però, anche noi assistiamo al rovesciamento del rapporto tra Parlamento e Governo, che fa del primo l’esecutore fedele delle decisioni del secondo.

Anche noi, prima di questa umiliante riforma del Senato, abbiamo dovuto subire la legge Del Rio, che nell’atto stesso di istituire finalmente la Città Metropolitana, le assegna un basso rango democratico, sottraendo l’elezione del Consiglio metropolitano alla sovranità degli elettori, affidandola proprio all’invisa casta dei politici e delle potenti segreterie dei partiti (faccio eco, ma di proposito, al giudizio corrente). Questo vulnus alla democrazia, è facile profezia, marcherà la storia della nuova istituzione. A meno che il più rapidamente possibile non siano create le condizioni per l’elezione diretta, nel 2016, del Sindaco e del Consiglio metropolitani.

Arturo Calaminici

Gruppo Petöfi – Dialoghi sulla città metropolitana/ 11

** Gruppo Petöfi – Dialoghi sulla Città Metropolitana**

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** Città Metropolitana**

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