24 settembre 2014

musica – UN ČAJKOVSKIJ ITALO-CINESE


ArcipelagoMilano ha il piacere di festeggiare con questo numero una delle sue colonne portanti, Paolo Viola, che ha raggiunto la 250esima recensione musicale per il nostro giornale. Per chi non lo sapesse Paolo è un ingegnere libero professionista, ma evidentemente per lui la musica è un pezzo del suo cuore.

Il direttore

 

UN ČAJKOVSKIJ ITALO-CINESE

LaVerdi ha scelto di dedicare a Čajkovskij una buona parte della lunga stagione che è appena iniziata – e che, per accompagnare l’EXPO, abbraccerà tutto il 2015 – con l’integrale delle Sinfonie e dei Concerti. Ha esordito la settimana scorsa alla Scala, con la Marcia slava opera 31, il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in sol maggiore opera 44 e la Quinta Sinfonia in mi minore opera 64, mentre nel primo concerto “in sede” (nella propria sede dell’Auditorium in largo Mahler) ha eseguito il Capriccio Italiano opera 45, il Concerto per pianoforte n.1 in Si bemolle minore opera 23 e la Seconda Sinfonia in do minore opera 17. Una bella abbuffata di cui, bisogna dirlo, non ci si deve lamentare perché Čajkovskij – per anni trascurato tanto quanto, per esempio, è stato esibito Mahler – aveva proprio bisogno di essere ripensato e valorizzato.

musica32fbPotremmo anche dire che Čajkovskij abbia avuto qualche responsabilità per la disattenzione di cui è stato vittima, con quella voglia di compiacere il pubblico, l’amore per i temi “facili”, la ricerca continua di ciò che oggi chiameremmo “effetti speciali” nelle orchestrazioni e ancor più nell’uso della tastiera. Ma nonostante queste arcinote sue debolezze resta pur sempre un compositore straordinario che più lo si conosce e più lo si ama. Purché – e qui sta il punto – venga eseguito con la dovuta prudenza.

L’Orchestra Verdi, in questa occasione, ha messo in campo il suo direttore stabile Zhang Xian e, in prosieguo, si affiderà anche a John Axelrod e a Oleg Caetani; i due concerti per pianoforte li ha affidati a Giuseppe Andaloro, esordiente nella nostra città, il concerto per violino sarà eseguito dalla ormai collaudata Francesca Dego.

Del concerto alla Scala ha già riferito Enrico Girardi sul Corriere della Sera, e non mi pare abbia manifestato un grande entusiasmo; del concerto all’Auditorium mi ha molto colpito la sorprendente contraddittorietà. C’è stato qualcosa di poco comprensibile che cercherò di approfondire.

Innanzitutto il palinsesto: la Xian ha messo insieme tre opere del periodo centrale nella vita di Čajkovskij, scritte fra il 1872 e il 1880 (l’Autore nasce nel 1840 e scompare molto presto, nel 1893) unite da un filo sottile. Sia il Capriccio Italiano che la seconda Sinfonia sono costruiti su temi platealmente popolari: il primo fu scritto a Roma, durante uno dei frequenti viaggi in Italia, la seconda durante un lungo soggiorno in Ucraina (non a caso la sinfonia fu intitolata dal suo editore “Piccola Russia”, come allora veniva chiamato quel Paese, noto per le forti tradizioni musicali del mondo contadino). Al centro del programma il Concerto per pianoforte e orchestra, che con Schiaccianoci è sicuramente l’opera più celebre di Čajkovskij, i cui temi sono sì creazioni originali dell’Autore ma voluti proprio per diventare anch’essi decisamente popolari. Dunque una serata con un doppio rischio: da una parte quello di semplificare e trasformare il tutto in una saga di paese, rinunciando a scavare nel senso più recondito della tradizione popolare e farne emergere i valori universali; dall’altra quello di tradire la cultura popolare intellettualizzando la più genuina delle sue manifestazioni.

Com’è andata? In modo decisamente contraddittorio. Andaloro – muscoloso trentaduenne palermitano – mi è parso cadere nella trappola e assecondare vistosamente l’ingenua voglia di Čajkovskij di vellicare il pubblico con la cantabilità e l’emozionalità dei suoi temi. Una interessante nota di Giacomo Manzoni nella sua “Guida all’ascolto della musica sinfonica“, a proposito di questo Concerto, dice: “Čajkovskij si abbandona qui a una magniloquenza non priva di momenti di felice ispirazione. La tecnica del solista vi è trascendentale e non si può certo dire che questa sia un’opera priva di presa sul pubblico; forse la qualità delle idee non è sempre nobile come si vorrebbe, forse in qualche punto l’istanza retorica supera la necessità espressiva …”. Se Andaloro, prima di studiare il concerto, avesse letto e meditato queste poche parole avrebbe forse evitato tanta inutile enfasi e risparmiato una buona dose di energia!

Quanto al direttore – la piccola, energica, precisissima e grintosissima Xian – tanto è riuscita a controllare e a dosare bene le parti della Sinfonia (non fra le più note, ma certamente fra le più interessanti dell’Autore russo), quanto si è lasciata andare nel Capriccio Italiano che sembrava eseguito più da una Banda che da una Orchestra Sinfonica; nel concerto è invece sembrata subire l’impostazione del solista e costretta (ma potrebbe essere vero anche il contrario …) a dialogare con il pianoforte stando sempre sopra le righe.

Di fronte a queste sfasature vien da chiedersi se il processo di globalizzazione che ci sta cambiando la vita – la globalizzazione culturale e sociale, che è ancor più pervasiva di quella economico-finanziaria – possa arrivare a far sì che un musicista cinese riesca a interpretare con facilità una musica russa costruita su melodie popolari italiane, o se non si debba avere maggiore prudenza nel mescolare culture tanto diverse tra loro. È nota, per esempio, la stretta relazione che lega il linguaggio musicale a quello della parola; se la lingua cinese è piena di parole tronche, se quella russa si basa molto sulle parole piane, e se la lingua italiana è molto varia (le sue parole si dividono equamente fra tronche, piane, sdrucciole e bisdrucciole, e anche per questa sua caratteristica è considerata una lingua molto “musicale”), può accadere che un interprete cinese, nel fraseggiare una musica russa, tenda a spostare a valle alcuni accenti, e così un compositore russo faccia a sua volta scivolare a valle gli accenti dei temi italiani. Insomma capita che suonando si fraseggi inseguendo istintivamente gli accenti usuali della propria lingua madre. Così è accaduto l’altra sera e, anche se talvolta queste tendenze appaiono come un accettabile tocco di esotismo all’impianto interpretativo, altre volte risultano meno sopportabili.

Cara Zhang Xian – e cari tutti musicisti che studiate, suonate e faticate per noi – forse non basta lavorare sulle partiture con tutta la dedizione e la passione possibili; forse bisogna anche capire quali sono gli autori e le musiche che possiamo affrontare a partire dal “brodo culturale” nel quale siamo immersi e limitare il nostro repertorio a quegli autori e a quelle epoche di cui siamo certi di avere assimilato fino in fondo il linguaggio, non solo quello musicale. Con buona pace della globalizzazione.

 

Post scriptum Anche l’avventura romana di Riccardo Muti – detto “il Maestro” – è finita come quella milanese, con le dimissioni date in piena situazione di caos nella vita del Teatro: della crisi alla Scala, nel 2005, sappiamo tutto; di quella romana questa rubrica ha dato ampio resoconto nell’ultimo numero del giornale, prima della chiusura estiva. Muti sembra voler rinunciare non solo alla direzione artistica del Teatro dell’Opera di Roma (vi era stato chiamato “a vita”, assai poco opportunamente, solo tre anni fa!) ma anche alla direzione delle due opere in cartellone affidate a lui, “Aida” e “Nozze di Figaro“, creando danni non da poco alla già difficile e tormentata programmazione della stagione lirica romana.

Con tutta la solidarietà che vorremmo esprimergli non possiamo non riflettere sulla analogia fra le due rinunce (o sconfitte, dipende dal punto di vista). Possibile mai che si lasci solo e sempre quando ormai la situazione è diventata ingestibile e il caos arrivato alle stelle? Che le nostre orchestre siano spesso un covo di sindacalisti/fondamentalisti piuttosto che una comunità di artisti/professionisti è più che certo. Ma non sarà anche vero che qualche direttore accetta incarichi prestigiosi con grande leggerezza e di fronte alle burrasche, peraltro prevedibili per non dire annunciate, preferisce scappare anziché affrontarle?

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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