7 settembre 2009

SOTTO IL SOLLEONE


In tutti i Paesi civili l’istituzione scolastica è sinonimo di unità nazionale. Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania la presenza a scuola è strettamente associata alla bandiera e ai simboli della Nazione. In Italia, invece, la scuola è diventata sinonimo di divisione nel corpo della Nazione. Se ne sono dette tante sulla scuola quest’estate sotto il solleone: soprattutto nell’agosto padano non si sono risparmiate bordate d’ogni tipo.

Ha cominciato in luglio la deputata leghista Paola Goisis a chiedere il controllo culturale, ideologico, politico sugli insegnanti, in un contesto espressamente razzista testimoniato dall’affermazione che “non è possibile che la maggior parte dei professori che insegna al nord sia meridionale”. Naturalmente, a parere dell’onorevole proponente, i titoli di studio non costituiscono una garanzia sulla preparazione dell’insegnante perché “spesso risultano comprati” (probabilmente ha avuto informazioni di prima mano dall’on. Gelmini, che è andata a procacciarsi l’abilitazione professionale in Calabria…), mentre una bella pronuncia dialettale, soprattutto se approvata da una commissione in camicia verde è la prova determinante della solidità della preparazione di un futuro docente. Così finalmente potremo presentarci a testa alta nel confronto con le scuole di altri Paesi europei.

A fare chiarezza sullo stato della scuola italiana comunque ci ha pensato l’Invalsi col gioco delle tre tavolette: i risultati dei test sui ragazzi di terza media davano una sostanziale omogeneità tra i tre tronconi d’Italia? Tutto ciò non va bene sul piano politico: ma basta cambiare i risultati, scoprendo che al sud si copia… al nord, notoriamente, sono tutti animati da rigoroso spirito kantiano e nessuno ha mai copiato, soprattutto agli esami! Ma non ancora soddisfatti del risultato i ricercatori hanno notato che alcuni esiti delle regioni del nord sono più bassi del previsto perché i ragazzi provenienti da famiglie che non parlano italiano hanno una minore competenza della nostra lingua e quindi fanno più fatica anche a rispondere alle domande di logica e di matematica, contribuendo a peggiorare il quadro complessivo. Che intuizione! E se si fossero formulate quelle domande almeno in inglese, francese e spagnolo (non arrivo a pensare all’arabo, al russo e al romeno…)? Magari quei ragazzini avrebbero risposto meglio. Ma no, che idee strane, del tutto aberranti per un Paese moderno: anzi per fare emergere proprio i migliori l’anno prossimo una buona parte delle domande saranno formulate in dialetto.

Ecco, ecco l’altro tormentone estivo: bisogna insegnare i dialetti, una buona volta! Cota dixit, e, se parla Cota, Manzoni deve tacere!

Ma sì, mettiamo un po’ da parte quel celebrato monumento della cultura milanese, soprattutto nella sua ingombrante versione scolastica che già Gadda deplorava! Forse, e non scherzo, un po’ meno Manzoni e un po’ più di dialetti, farebbero bene alla scuola italiana. Il mio, lo ammetto, non è un auspicio del tutto imparziale perché ho la passione per i dialetti. Mi affascina quello del Porta, modulato in molteplici registri espressivi, e quello con cui Delio Tessa settant’anni fa già diceva all’Italia: “Quist hinn che te comanda, / mediatur de tossann, mercant de coca!”; mi commuove il romagnolo aspro con cui Baldini e Guerra esprimono i sentimenti più teneri e quello antichissimo di Tursi, in Basilicata, usato da Pierro per ritrovare le sue origini, la sua giovinezza. E’ carico di un’espressività infinita nella sua implacabile fissità il romanesco di Belli, è bello il ligure di Firpo, scoppiettante di suoni, è ricco il dialetto quasi personale con cui Biagio Marin ci fa respirare l’aria di Grado, sono dolenti e attraversati da sonorità sfumate il friulano di Pasolini e il triestino di Giotti, diversi tra loro ed espressioni di due volti della città il napoletano di Di Giacomo e quello di De Filippo, un urlo d’indignazione il siciliano di Buttitta, ironico, graffiante il veneziano personalissimo di Giacomo Noventa.

Sì, i dialetti sono una ricchezza immensa e il loro insieme è la più straordinaria manifestazione dell’infinita varietà delle radici della cultura italiana e degli apporti che l’hanno arricchita: greci e celti, arabi e latini, germanici e francesi, slavi, spagnoli, nordici, africani… con tutte le tradizioni, le religioni, le dominazioni, le sventure, le arti, gli studi, le trasmigrazioni possibili! Il continuo intreccio dei dialetti e le costanti modifiche all’interno della stessa area dialettale ci dicono che un Paese è vivo solo se si espone ad una continua “contaminazione” tra persone, lingue e culture per conseguire un continuo arricchimento umano.

Questo è il contributo che la conoscenza della realtà dei dialetti può sicuramente dare alla scuola. E’ il risultato opposto a quello desiderato da Cota e Borghezio (e sotto sotto anche dalla Gelmini)? Mi spiace, ma questa è una seria proposta culturale, tutto il resto ciarpame (ops…) propagandistico.

Vincenzo Viola

                                    



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