10 settembre 2014

IL RILANCIO DEGLI INVESTIMENTI. IL PERCHÉ È OVVIO MA COME?


Il dibattito corrente sulla crescita economica del Paese è piuttosto confuso, perché è intersecato da troppe variabili: economia nazionale/economia europea, crescita versus decrescita, cosa fare del debito pubblico, ecc. Ora, con la crisi ucraina, la confusione è destinata ad aumentare, perché cresce il numero delle variabili su cui si incagliano i commenti. Meglio essere minimalisti, focalizzando la riflessione solo sulla crescita dell’economia nazionale in sé, isolando questa questione da tutte le altre e dando per acquisita l’esigenza di favorire la crescita stessa.

concept coût de l'immobilierPresupposto per riordinare la discussione è accordarsi sul fatto che la crescita, per l’economia italiana, non è la terapia ma, casomai, la malattia su cui è necessario intervenire. In altri termini, l’economia italiana non cresce perché è un sistema distorto e prescriverne la crescita sarebbe un po’ come consigliare la guarigione a un malato grave.

Tra le cause ve ne sono alcune, sic rebus stantibus, di cui non resta che prendere atto (a meno di non ipotizzare soluzioni fantasiose) e il debito pubblico è tra queste. Se l’economia cresce, si dice, sarà più facile pagare il debito, perché, ovviamente, diminuirà il costo del servizio. Grazie tante. Ragioniamo invece sulle macrostrategie possibili, sospendendo, per il momento, anche le considerazioni sull’efficacia delle riforme sul tavolo del governo e sulle materie ricorrenti (tipo la richiesta di abolizione dell’articolo 18, che ha l’unico effetto di favorire le aspettative ribassiste degli imprenditori).

Nelle ultime settimane la discussione si sta focalizzando, e questo è un bene, sugli investimenti. Se crollano gli investimenti, è ovvio, niente crescita. E infatti diminuiscono i consumi e gli occupati. Stiamo scoprendo quello che gli economisti sanno da un secolo: l’economia è un sistema dove tutte le variabili si influenzano a vicenda. Keynes, nella Teoria generale, fa l’ipotesi dell’economia chiusa, non certo perché non fosse a conoscenza delle interconnessioni internazionali, ecc., ma per isolare quelle variabili su cui intendeva proiettare luce. Sarebbe utile ragionare in questo modo anche in Italia, in modo da focalizzare davvero l’attenzione sulle possibilità che offre l’economia del Paese.

La crisi degli investimenti, in Italia, pare sia dovuta essenzialmente al crollo degli investimenti in edilizia. Infatti, se gli investimenti totali tra il 2009 e il 2013 sono calati da 260,6 miliardi a 233 miliardi, quelli in costruzioni sono passati da 143,6 a 115, 9 miliardi. La conclusione che, con indebita inferenza, se ne ricava è che occorre rilanciare gli investimenti edilizi. A prescindere dal fatto che il 2010 è stato l’unico anno in cui gli investimenti complessivi sono aumentati benché quelli in costruzioni siano scesi in maniera notevole, non viene in mente a nessuno che forse negli anni precedenti la crisi c’è stata un po’ di speculazione immobiliare, per effetto dei tassi e delle interconnessioni con la finanza, e che forse il peso del settore nella composizione dell’economia nazionale (il PIL) è cresciuto un po’ troppo a scapito dell’industria e della manifattura?

La riflessione da fare è dunque più ampia e riguarda le prospettive di un Paese il cui unico scopo non può essere quello di rendere semplicemente sostenibile il proprio debito pubblico. E questo al di là delle opinioni sull’efficacia della politica monetaria nella creazione di investimenti. Un Paese fondato, in maniera quasi monoculturale, sulla proprietà edilizia non è un paese moderno e tanto meno è un paese dinamico, competitivo, che guarda al futuro. La strategia della casa in proprietà per tutti (a differenza dell’America di Bush dove era incidentale) ha in Italia caratteristiche strutturali e di lungo periodo: è questo l’anello debole di un’economia debole, dove il settore immobiliare prosciuga il risparmio delle famiglie e le risorse finanziarie (la versione nazionale della sindrome di Baumol).

Ci rendiamo conto che, imprigionandola in un mutuo generazionale, abbiamo anche perso almeno un’intera generazione di immigrati? Questi ulltimi sono stati in pratica obbligati ad acquistare casa a debito, perché manca un mercato degli affitti e perché si intendeva sostenere i prezzi delle case stesse. Così si è perso il vantaggio di avere manodopera a basso costo, nuovi consumatori, nuovi risparmiatori. Un’ondata immigratoria in generale crea nuova ricchezza e sviluppo, invece in Italia si è avuta la recessione. Bisogna considerare che per pagare i mutui gli immigrati pagano anche tre quarti del loro stipendio. Per di più pr4ivati di risorse spendibili hanno avuto spesso difficoltà di integrazione e ora molti perdono l’alloggio che non riescono più a pagare.

Schumpeter rilevava che nelle trasformazioni economiche occorrono sì risorse nuove (da crearsi attraverso la moneta bancaria), ma è anche necessario spostare i fondi dai settori obsoleti ai nuovi settori che si intende promuovere. È qui che è indispensabile la mano della politica. È la tanto invocata politica industriale, che poi sarebbe la politica economica tout court.

 

Mario De Gaspari



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