10 settembre 2014

BIENNALE DI ARCHITETTURA 2014. IL PADIGLIONE ITALIA: MILANO D’ABORD


Dopo aver presentato, nei numeri 27 e 28 di ArcipelagoMilano, le sezioni della Biennale di architettura di Rem Koolhaas e alcuni dei padiglioni nazionali che hanno a mio parere affrontato il tema del proprio rapporto con la modernità in modo più interessante, intendo ora commentare il Padiglione Italia.

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  • Va subito osservato che Cino Zucchi, che ne ha curato l’ordinamento, evita di confrontarsi in modo diretto e frontale con il tema assegnato da Koolhaas, e tenta di organizzare una mostra autonoma, eleggendo Milano come caso di studio sicuramente non rappresentativo dell’intero Paese ma certamente significativo. Ci offre anche l’occasione di proseguire il confronto sulla sua qualità urbana che insieme a alcuni colleghi e con il contributo dello stesso Zucchi, ci siamo impegnati a portare avanti attraverso ripetuti incontri e dibattiti che si sono tenuti nel mio studio fin dal 2010.
  • La nostra città è infatti la protagonista del padiglione perché le viene dedicata una importante sezione intitolata Milano: Laboratorio del moderno dove si presentano le tappe salienti della trasformazione, che ci hanno portato allo scenario attualmente sotto i nostri occhi e che, al di là di quanto si percepisce visivamente, ha comportato ben altre trasformazioni nel suo impianto urbano.

Milano viene anche indicata come sede del laboratorio ambientale enfatizzato dalla idealizzazione, forse azzardata, del ruolo che potrà avere l’Expo Universale che si inaugurerà tra meno di un anno, che è stata al centro di dispute politiche e fenomeni di corruzione, del tutto prevedibili e puntualmente verificatisi, ai quali si cerca oggi tardivamente di rimediare.

In questa sezione a cura di Luisa Collina, che precede il vero e proprio Padiglione Italia, si documenta l’attività svolta dal Politecnico di Milano attraverso la collaborazione di altre 18 università che hanno progettato i nove cluster che ospiteranno tutti i paesi non in grado di realizzare un proprio padiglione nazionale.

Fig.1

Padiglioni “cluster”, dove coabitano i paesi che condividono i temi guida
A cura di Luisa Collina

Questi paesi potranno partecipare a Expo ospitati nei cluster dedicati ad alcune tematiche produttive e ambientali che li accomunano: riso, caffè, cereali e tuberi, spezie, zone aride, isole, eccetera. È questa un’esperienza di partecipazione e collaborazione che avrebbe potuto riguardare altri settori di Expo reinterpretando la formula ormai obsoleta e superata basata sull’accreditamento degli Stati invece che sulle complesse situazioni geopolitiche del pianeta.

Nella stessa sezione Paolo Galluzzi di Arexpo cerca poi di “tracciate futuri possibili” per il dopo Expo presentando le proposte di alcuni studi di architettura ai quali è stato chiesto di immaginare quale potrebbe essere nel 2030 la situazione delle aree interessate dall’evento, tenendo conto delle trasformazioni che si avranno a scala metropolitana e cercando di interpretare quali potranno essere le nuove forme d’uso della spazio collettivo.

Le cinque idee che ne sono emerse che vanno dalle massina concentrazione del futuro insediamento ipotizzato nel progetto Archetipi di Barozzi/Vega, all’indeterminatezza insediativa di Inverse Urbanism di Garofalo/Costantino, fino alla banalizzazione di Far West Milano di maO e alla provocazione del Cimitero di tutte le religioni di Yellow Office e della esasperazione ambientalista (De)growing platform di Studio Errante, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare su una questione tanto cruciale e che, in alcune edizioni di Expo del recente passato, ha rappresentato l’unica e purtroppo disastrosa eredità di questo tipo di eventi.

Fig.2

Francesco Garofalo, Barbara Costantino, Open Fabric Inverse Urbanism
Proposta di recupero dell’area dopo EXPO2015

Ha richiamato alla mia mente l’esperienza del concorso per la Mission Grande Axe a Ovest della Defense del 1991 quando, per definire un’attendibile metodologia progettuale, avevamo esemplificato le aberranti soluzioni derivanti da improponibili approcci monotematici che, secondo le note teorie di René Thom, avevamo definito “catastrofi”.

Fig.3

Emilio Battisti, Giorgio Trebbi, Françoise Burkhardt, Giuliano Della Pergola e altri
Concorso Mission Grand Axe, Simulazione progettuale monotematica, 1991

 

Molto coinvolgente è la videoinstallazione di Studio Azzurro che consente di simulare il gesto del seminatore e registrarne gli effetti in un albero di parole e immagini in continua trasformazione, mentre l’altra proiezione multipla Paesaggi abitati che assembla centinaia di video di situazioni urbane e paesaggistiche, per quanto molto godibile non sembra offrire significativi spunti di riflessione.

Il Padiglione Italia è introdotto dalla citazione di una serie, assai casuale, di eventi architettonici ritenuti esemplari che vanno dagli studi di Leonardo per il tiburio del Duomo, al Teatro del Mondo di Rossi richiamando progetti e opere di Antonelli, Asplund, Terragni, Ponti, Libera fino a Scarpa, Albini, Gardella, Gregotti tutti accomunati, a parere di Zucchi, dal fatto di presentarsi come Innesti espressivi della metamorfosi dell’organismo architettonico nel suo rapporto con il relativo contesto.

Ma qui, anche per esperienza diretta, posso testimoniare che nel caso del progetto per l’Ampliamento della Camera dei Deputati, al quale ho partecipato insieme a Ezio Bonfanti, Marco Porta e Cesare Macchi Cassia nel lontano 1967, coltivammo un approccio marcatamente costruttivista in aperto contrasto con il contesto storico di riferimento, anche influenzati dell’interesse per l’Avanguardia sovietica, che io stesso avevo iniziato a studiare fin dagli anni dell’università.

Fig.4

Emilio Battisti, Ezio Bonfanti,Cesare Macchi Cassia e Marco Porta
Progetto di Concorso per l’ampliamento della Camere dei Deputati, Roma 1967

Così come nel progetto del concorso per l’Università della Calabria sulle colline di Arcavacata a Rende del 1973 al quale partecipai, a fianco di Vittorio Gregotti, assieme a Franco Purini, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui e Bruno Viganò, ove prevalse certamente l’idea di connotare l’intervento come una “infrastruttura con una geometria rigorosa, capace di sezionare la geografia del territorio”, rifiutando di conseguenza ogni mimetismo e ottenendo invece un drastico straniamento dell’architettura rispetto al paesaggio che ne è risultato, di conseguenza totalmente trasfigurato.

Fig.5

Vittorio Gregotti, Emilio Battisti, Franco Purini, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui
Progetto università della Calabria, Cosenza 1974

Più che dalla mostra questa sezione introduttiva si comprende veramente leggendo il saggio di Zucchi che presenta almeno quattro livelli di lettura: il testo con le sue note, le immagini con le loro didascalie, i dettagliati commenti alle immagini stesse e le citazioni a margine tratte da un repertorio al quale egli fa ripetutamente ricorso in funzione delle specifiche occasioni.

Ma la sensazione è che il discorso tenda ad accreditare i fenomeni di trasformazione come casuali e i loro effetti come prodotto di una non meglio definita intenzionalità della storia, assumendo il punto di vista di coloro – geografi, urbanisti e pianificatori – che con tale aleatorietà hanno dovuto inevitabilmente misurarsi tentando comunque di darvi forma e struttura.

L’interpretazione che se ne dà avviene, in modo a critico, attraverso la citazione delle fasi salienti della trasformazione della Milano moderna e contemporanea in base alla valutazione della loro rilevanza: dalla tardiva realizzazione della facciata del Duomo alla sistemazione della sua piazza, entrambe avvenute nella seconda metà dell’Ottocento, attraverso le fasi di trasformazione e ricostruzione postbellica della Ca’ Granda, fino ai recenti interventi di Garibaldi – Repubblica che ne hanno profondamente trasformato non solo l’immagine ma stanno ridefinendo la localizzazione degli stessi riferimenti di centralità della nostra città: dal sistema Duomo – Scala – Castello a piazza Gae Aulenti – exVaresine – nuova Regione.

Fig.6

Francesco Castelli
Progetto per la facciata del duomo di Milano, 1654

Fig.7

Ricostruzione del chiostro dell’ospedale maggiore di Milano nel dopoguerra

Fig.8

Recenti interventi in zona Garibaldi-Repubblica a Milano
Masterplan, Pelli Clarke Associates, Hines Italia

 

 

 

 

Contribuiscono a definire tale sequenza le figure degli architetti che attraverso le loro opere milanesi hanno formato la ricca casistica di Innesti, come li ha definiti Zucchi, che avrebbero in comune un tipico modo di confrontarsi con il contesto assumendone i riferimenti con un approccio critico-interpretativo propositivo e mai banalmente subalterno.

La scelta operata con ampia discrezionalità e a prescindere dalle etichette, si propone sicuramente anche di superare lo sterile dibattito in corso da qualche anno sull’esistenza e reale natura di una ipotetica Scuola di architettura Milanese che faccia riferimento più agli architetti che avevano aderito e militato nel Movimento moderno da Terragni a Bottoni, piuttosto che a quella compagine più organica alla dinamica borghesia imprenditoriale milanese da Portaluppi a Caccia Dominioni.

Facendo leva su figure non univocamente schierate come Gardella e Ponti, il curatore opera una sintesi che ci induce a evitare le classificazioni preconcette e a confrontarci invece con la multiforme realtà che fino agli anni ’50, nella generalità dei casi, aveva spontaneamente rispettato alcune regole insediative, non scritte, creando il solido tessuto urbano sfondo ideale per i monumenti e gli spazi rappresentativi della Milano moderna.

In questo fluido scenario non mancano omissioni, incoerenze e contraddizioni. E ciò avviene ad esempio lasciando in secondo piano la figura articolata e complessa di Rogers e quella a tutto tondo di Bottoni autore del quartiere razionalista QT8 che, mi sembra, non sia stato neppure citato. Ma mentre ci si impegna a esercitare la critica su un piano soprattutto formale e compositivo, non si esita a proporre analogie tra opere che non hanno nulla in comune non solo sul piano del linguaggio, come è ovvio, ma neppure nel modo di declinare il proprio rapporto con la città.

Mettere a confronto Casa Rustici di Lingeri-Terragni e il palazzo di Portaluppi in corso Venezia rappresenta a mio avviso una provocazione che non contribuisce a fare chiarezza perché non solo gli evidentissimi aspetti stilistici ma soprattutto l’impostazione insediativa e il rapporto con la città non sono confrontabili e del tutto antitetici. Il carattere assertivo dell’arco che sovrasta via Salvini rispetto al leggero schermo che definisce in modo virtuale il fronte su Corso Sempione; la simmetrica monumentalità delle ali del complesso di Portaluppi rispetto alla sapiente modalità con cui casa Rustici regola il proprio rapporto con via Mussi, che si innesta non perpendicolarmente su corso Sempione, non hanno proprio nulla in comune. Forse il collega Federico Bucci, come storico e critico dell’architettura, avrebbe dovuto impegnarsi ad affrontare tesi meno azzardate oltre che documentare più accuratamente l’attribuzione dei progetti esposti nella mostra.

Fig.9

Piero Portaluppi
Palazzo in Corso di Porta Venezia, Milano 1926 – 1930

Fig.10

Pietro Lingeri – Giuseppe Terragni
Casa Rustici in Corso Sempione, Milano 1933 – 1936

Al termine del lungo itinerario si arriva poi allo scenario della Milano di oggi documentato da una gigantografia che fa da sfondo alla sala in cui è allestita la mostra e a una sequenza di preziosi modelli di marmo degli edifici che di tale scenario sono protagonisti, introdotta da una sezione intitolata La città che sale, titolo ripreso alla lettera dal quadro di Boccioni del 1910 considerato la sua prima opera futurista che però con i grattacieli non ha nulla a vedere. Il titolo del quadro di Boccioni, ambientato in una periferia urbana probabilmente milanese, che celebra soprattutto il lavoro e ne esprime il dinamismo in adesione al Futurismo, al quale si era già fatto ricorso in precedenti occasioni per presentare il PGT della Milano “di due milioni di abitanti” dell’assessore Masseroli e della Moratti, per la “città bene comune” dell’assessore De Cesaris e di Pisapia mi sembra usato proprio a sproposito.

Fig.11

Vincenzo Castella
01Milano 2014, 02Milano2014, 03Milano 2014 , Courtesy: Studio La Città, Verona

Credo francamente che ci sia materia di cui discutere e che la sezione del padiglione Italia dedicato a Milano ci offra l’occasione per farlo in modo ampio e coinvolgente. Almeno di questa opportunità possiamo certamente essere riconoscenti a Zucchi.

La seconda sala delle Tese delle Vergini ospita la mostra Italia. Un paesaggio contemporaneo, di ottantacinque architettura scelte per documentare le eccellenze dell’architettura italiana. Un paesaggio in parte virtuale in quanto una ventina sono per ora solo sulla carta non essendo ancora stati realizzati gli edifici rappresentati e non si sa se mai lo saranno. Tredici sono inoltre all’estero, prevalentemente nei paesi europei, a testimoniare anche l’apporto della nostra cultura architettonica ma non contribuiscono certo a formare il nostro paesaggio contemporaneo.

Tutti i progetti sono presentati con una sola immagine retroilluminata e non si comprende quale sia il loro ordinamento anche se il dichiarato intento è che siano stati selezionati in quanto dimostrerebbero di essere concepiti sulla base di una “osservazione attenta del sito, dei suoi vincoli, delle sue risorse, e la capacità di intervenire in esso con un atto di trasformazione che li assorba al suo interno e li trasfiguri in un nuovo paesaggio abitato”.

Tale assunto tanto impegnativo non mi sembra possa trovare riscontro, a prescindere dalla loro intrinseca qualità architettonica che non intendo mettere in discussione, in interventi come l’auditorium di Barozzi/Veiga a Aguilas in Spagna, il bellissimo Vortice di Oberti/Stocchi a Vaprio d’Adda, Hotel 1301 Inn – Slow Horse di Elasticospa + 3 a Piancavallo, il Lungomare Foro Italico di Italo Rota a Palermo oppure nel rifacimento delle piazze Chiesa e Municipio di Lixi/Delogu a Sinnai.

Fig.12

Barozzi-Veiga Auditorium, Aguilas, Spagna 2005 – 2011

Fig.13

Gualtiero Oberti – Attilio Stocchi Vortice, Vaprio d’Adda, (MI) 2004 – 2013

Fig.14

Elasticospa+3 Hotel 1301 inn – Slow Horse, Piancavallo (PN) 2012

Fig.15

Italo Rota Lungomare Foro Italico, Palermo 2005

Fig.16

Gaetano Lixi – Francesco Delogu Rifacimento delle piazze Chiesa e Minicipio, Sinnai (CA)1995 -1999

E quale ruolo possono avere nella formazione di tale paesaggio interventi temporanei come i due padiglioni, fuori scala, dell’Expo Gate di Scandurra a Milano o la sorprendente e pregevole installazione The Cube – Itinerant Restaurant di Park Associati, che ha campeggiato su piazza del Duomo per alcuni mesi prima di migrare in altre città europee?

Fig.17

Scandurra Studio EXPO Gate, Milano 2014

Fig.18

Park Associati The Cube – Itinerant Restaurant, Milano 2012

Infine mi sembra che alcuni progetti non possano vantare in senso stretto quella qualità architettonica che dovrebbe essere la caratteristica comune delle opere in mostra.

Tenendo quindi conto del fatto che Zucchi, nel guidarci alla visita della mostra in occasione della vernice, ha detto senza mezzi termini di aver scelto i progetti del tutto autonomamente, mi ritrovo più a mio agio a sapere che si è lasciato orientare dal proprio gusto personale anche a costo di essere parziale, anzi proprio per marcare una parzialità che oggi troppo pochi praticano e molti evitano per ragioni di convenienza. Ma per quanto riguarda quest’ultima questione il sospetto che alcune scelte possano essere state condizionale da ragioni di convenienza non credo si possa in assoluto escludere.

Ci sarebbero ancora da commentare le opere grafiche che cinque colleghi hanno presentato nella sezione Ambienti taglia e incolla che nell’intenzione del curatore dovrebbero costituire “un importante contributo di riflessione attorno alla disciplina, uno strumento affilato con cui incidere nel dibattito contemporaneo” ma non sono francamente riuscito a trovare riscontro a un proposito tanto impegnativo. Mi sono sembrati piuttosto degli elaborati ex tempore o “capricci” fatti più per sorprendere e divertire che per riflettere.

Prima di uscire nel Giardino delle Vergini dove si trova il lungo nastro di metallo che forma un arco sotto il quale si può passare, per trasformarsi poi in seduta, tavolo e infine palco, certamente la parte più bella dell’allestimento, si incappa in un distributore di cartoline con le quali una quindicina di colleghi stranieri hanno risposto all’invito di dare una “personale interpretazione dell’architettura e cultura urbana italiane nell’ultimo secolo”, accompagnandola con un’immagine che possa rappresentare il legame tra il loro lavoro e il tema Innesti/Grafting.

Fig.19

Cino Zucchi Schema generale dell’allestimento del Padiglione Italia

Pochi tra gli interpellati, tra i quali Holl, Wilson, Pearrault, Baldeweg, Desvigne, Mazzanti e Yvonne Farrell e Shelley McNamara, hanno manifestato particolare impegno nel rispondere, a parte Desvigne che cita alcuni nostri progetti ai quali si è riferito nella fase della sua formazione e il sudamericano Mazzanti che ci richiama senza mezzi termini all’impegno politico e sociale dell’architetto.

Ma le care amiche dello studio Grafton Architects, che hanno dato a Milano l’ampliamento della Bocconi – forse l’unica architettura di vera qualità degli ultimi vent’anni – facendo riferimento alla loro esperienza milanese, fanno notare a Zucchi con franchezza e ironia: “Sarà quindi poi così sorprendente che l’architettura italiana dell’ultimo secolo abbia questa qualità che descrivi in modo così succinto?”

Fig.20

Yvonne Farrell & Shelley McNamara Cartolina al Padiglione Italia

Forse in questo sintetico interrogativo sta il giudizio che si può formulare sul Padiglione Italia: esiste un evidente divario tra gli enunciati tematici sempre molto impegnativi e complessi e lo svolgimento che si legge anche in un certa indeterminatezza nelle titolazioni: considerato che i due termini non sono affatto sinonimi, gli innesti, di cui si parla, generano il moderno come trasfigurazione o come metamorfosi? Le sette sezioni del padiglione non sono forse troppe per focalizzare adeguatamente il tema assegnato da Koolhaas che nella generalità dei casi negli altri padiglioni nazionali è affrontato in modo più chiaro, diretto e dimostrando più consapevolezza della sua crucialità e impegno nel considerarne le contraddizioni?

Ma credo che i varchi lasciati aperti in una trattazione che comunque non si presenta semplice rappresentino un ottima occasione per discutere della nostra situazione attuale a Milano e nel Paese.

 

Emilio Battisti

 



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