10 settembre 2014

libri – RADICAL CHIC


TOM WOLFE

RADICAL CHIC

(I ed. inglese 1970)

I edizione Etcetera Castelvecchi, 2014

euro 12, pp.138

 

libri30FBUna vera chicca esilarante. Una manciata di caustico sarcasmo questa riedizione 2014 di “Radical chic“, un’opera apparsa nel 1970 per la penna acuminata del padre del New Journalism americano, Tom Wolfe, noto in Italia per il “Il falò della vanità” del 1987. Tra i vari neologismi da lui coniati, destinati ad entrare nel lessico internazionale, è proprio il “Radical chic” del titolo.

Si narra che Wolfe riuscì a partecipare nel 1970, come giornalista, non invitato del New York Magazine, a uno dei leggendari party organizzati dal direttore d’orchestra Leonard Bernstein e sua moglie Felicita nel loro duplex di 13 stanze nell’East Side a New York, per una raccolta fondi per le 21 Black Panters, imprigionate senza giusto processo, a loro dire, con l’accusa di complotto per far saltare cinque centri commerciali.

Alle Black Panters presenti venivano offerti improbabili bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate! Non sfugge al polemista Wolfe “il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, secondo la “teoria del neonato dal pannolino rosso” dallo “stile di vita di destra ma pensieri di sinistra”, dalle ferree regole di vita, per le quali bisognava assolutamente “avere domestici, ma bianchi”, avere “un posto dove andare il fine settimana”, fare donazioni a favore degli svantaggiati, purché “non fiscalmente detraibili”, leggere il New York Review of Book.

Fu proprio durante quel party che Wolfe coniò il termine Radical chic, colpito, come certa stampa americana legata al New York Times, dalle apparenti contraddizioni dei presenti (appartenenti alla nuova upper class newyorkese ebraica e cattolica, in antitesi ai wasp protestanti conservatori della Vecchia New York), che si battevano per la difesa dei diritti degli oppressi, in quel caso i neri. Ma quegli oppressi erano tali proprio a causa dello stesso Sistema al quale quei benestanti appartenevano, quelle 750 famiglie che detenevano tutta la ricchezza americana, a dire di Cox, Maresciallo Superiore delle Black Panters, presente al party. Quel Sistema che le Black Panters tentavano di colpire, per difendersi dalle sue prevaricazioni, come le disuguaglianze nei diritti civili, frutto di razzismo, coda avvelenata dello schiavismo.

Quei gruppi di ebrei e cattolici, arricchitisi alla fine degli anni ’50, grazie alle nuove industrie di comunicazione e media, usavano la pubblicità, come forma di promozione sociale in antitesi all’establishment protestante. E difendere pubblicamente la causa dei più deboli era uno dei modi per acquisire notorietà e consenso sociale, secondo Wolfe. Così come nel 1890 i Vanderbitt, i Rockfeller, gli Huntington, i nuovi ricchi di allora, arrivarono a costruire il Metropolitan Theatre in antitesi all’Accademy of Music, di soli 29anni antecedente, perché i pochi palchi a disposizione erano monopolizzati da certe famiglie protestanti e non c’era spazio per loro.

Queste “ondate di nuovi plutocrati” dovevano identificarsi con nuove forme di interesse politico, per godere di una rappresentanza visibile. Ed ecco l’abbraccio con la causa dei “dannati della terra”, e l’adesione al partito democratico. In questo gioco si insinua, in seguito, una nuova sotterranea lotta tra neri ed ebrei dei quartieri più degradati, poiché quei neri volevano liberarsi dall’abbraccio mortale dei loro benefattori, i facoltosi bianchi – ebrei. Molti di questi infatti erano nemici giurati delle frange estremiste palestinesi, ai quali invece quei neri si sentivano vicini. E a loro volta gli stessi ebrei più poveri diffidavano dei neri degli slums, considerati loro antagonisti nelle grazie dei benefattori bianchi.

Leonard Bernstein e sua moglie furono tra questi progressisti,e come tali, divennero bersaglio di feroci attacchi, anche della migliore stampa, come il New York Yimes, che ricordando appunto il loro party a favore delle Black Panters li fece apparire come ambigui difensori di nemici della società americana, in preda alla “nostalgie du bou” (nostalgia del fango) che portava a romanticizzare le cause dei neri, dei raccoglitori di uva, degli indiani.

A nulla valsero le loro interviste e lettere a giornali come il “Times”, specificando che il loro invito non era stato un party mondano, ma una riunione finalizzata alla raccolta fondi per un processo giusto. Bernstein, bollato come “pantera da salotto”, divenne un capro espiatorio e subì l’oltraggio dei buuuuuuuuuu, da una platea di “bianche gole inamidate, cripto bigotti, fruttivendoli di Moshe Dyan” durante una sua tournèe in Israele. Togliendogli il sonno.

Non meno tagliente e istruttiva è la seconda parte del libro, ove si parla di come gruppi di neri volevano mau-mauizzare quelli che loro chiamavano “parapalle” e cioè i vice dei direttori dei centri per il “programma povertà”, spaventandoli a morte solo con la loro grande prestanza fisica.

Da leggere, per sapere ironizzare anche su quanti di noi a suo tempo, vivemmo una stagione simile a quella descritta da Wolfe, seppure “mutatis mutandis”.

 

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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