3 settembre 2014

PIANETA DA NUTRIRE O MILANO (ANCORA, DOPO PENATI) DA BERE?


Le storie si ripetono la prima volta come tragedia la seconda come farsa. Tale appare la vicenda di alcuni protagonisti dello scandalo Expo 2014, tardo-recidivi dei fasti della grande “tangentopoli” di vent’anni addietro. Così da non scandalizzare più di tanto, data la ormai consolidata prevedibilità di complicanze corruttive legate alle grandi Opere e ai grandi Eventi, in realtà solo la punta dell’iceberg di un esteso sommerso, di una pesante e diffusa “tara” che aggrava ogni velleità di ripresa economica e recupero sociale e solidale. Semmai la novità è stata che mentre normalmente lo strascico giudiziario segue l’evento, questa volta lo ha preceduto!

04_ballabio29FBPertanto Milano si segnala ancora all’avanguardia su tale sdrucciolevole terreno, per quanto i concorrenti siano numerosi e agguerriti in tutte le aree del Paese. Certamente la partita è aperta: malgrado difficoltà esterne e anche interne regge il ruolo della magistratura, e una parte pur minoritaria della società civile tiene fermo con lucidità e rigore il discrimine etico-politico nel comportamento pubblico. L’eco del triplice appello a “resistere” di Francesco Saverio Borrelli risuona ancora. Ma la politica in senso proprio come reagisce e come agisce al riguardo? A destra il quadro appare ovviamente desolante, ma a sinistra? Con quale nerbo il centrosinistra e in particolare il PD, gonfio di consensi elettorali e di velleità riformatrici, intende “cambiare verso” anche su questo infido ma non eludibile terreno?

Qui pesa come un macigno, a mio modesto ma sperimentato avviso, il postumo dell’affare Penati, un lutto rimosso e mai elaborato. Al di là delle strette vicende giudiziarie (dagli esiti talvolta ilari come la prescrizione abbreviata con legge ad hoc piovuta dal cielo e applicata obtorto collo da un giudice pignolo!) non si è forse mai riflettuto abbastanza sul “penatismo”, ossia un’idea di fondo delle motivazioni e delle modalità del “fare politica”. L’idea cioè, tratta dalle pratiche del PSI craxiano e del PCI (milanese) post-berlingueriano, che il potere sia un fine in sé e non un mezzo per guidare il cambiamento della società. Quest’ultima per altro non sarebbe modificabile, tutt’al più “migliorabile” tramite gli spontanei meccanismi di mercato. Pertanto la politica si deve sostanzialmente limitare alla conquista e all’occupazione delle posizioni di comando e di comodo da parte di una distinta categoria, autoreferenziale e cooptata, che in breve si sarebbe guadagnata la poco commendevole nomea di “casta”.

Tale limitata e strumentale “cultura” politica ha portato il Nostro, coadiuvato e acclamato da un quadro intermedio mediocre e omologato (tuttavia destinato a future più o meno brillanti carriere) e da una base devota e acritica (sempre fedele al Segretario in carica, nel caso imposto dal Vertice con repentino “contrordine” in luogo dell’ottima Fiorella Ghilardotti, candidata della sera prima), a cercare di riprodurre in sedicesimo il berlusconismo allora trionfante, assimilandone e imitandone i metodi: personalizzazione del discorso pubblico, cura dell’immagine, controllo dei media, staff e yes-men in luogo delle istanze di partito, campagne elettorali spettacolari e dispendiose. Finanziare con ogni mezzo tutto questo, disponendo per altro di un partito beneficiario di un generoso finanziamento pubblico ma non certo del partito-azienda dalle enormi disponibilità dell’emergente campione concorrente, non è risultata che la logica conseguenza.

E non si tratta solo di finanziamenti illeciti e tangenti imbustate, come dimostra l’ormai ampia letteratura sull’evoluzione di forme e modi della corruzione nel ventennio (*), bensì di un più diffuso mutamento del senso comune a partire dalla classe dirigente in senso lato. L’offuscarsi di quei valori, non alti ma medi e normali, quali la “etica laica” (Piero Gobetti) e lo “spirito pubblico” (Antonio Gramsci, per il quale inoltre il moderno Principe sarebbe “banditore della riforma intellettuale e morale”). Vale allora forse la pena di riprendere qualche accenno sul rapporto tra etica e politica, ammesso che quest’ultima riesca a riemergere in qualche modo dal miope pragmatismo dilagante e darsi ragione del proprio ruolo e missione.

Senza disconoscere il valore dell’autonomia della politica, che deve giustamente rifuggire l’appiattimento sul moralismo o addirittura sul confessionalismo, per non cadere nella involuzione dello Stato “etico” o persino “teocratico”: viviamo giustamente nella patria di Machiavelli che per primo riconobbe le ragioni proprie della politica, distinte dalle false coperture moralistiche. Tuttavia i mezzi spregiudicati (il Principe deve “simulare e dissimulare”, “usare la golpe ed il lione”, ecc.) sono messi a servizio di un fine eticamente valido (“il bene dello Stato”) non del potere fine a se stesso; tanto da suscitare le diffidenze del Guicciardini, teorico dello scetticismo opportunista nonché dell’indifferenza “gastronomica” tra Franza e Spagna!

Altrimenti il primato assoluto della politica, il totus politicus di stampo giacobino, porta alla distorsione uguale e contraria: la convinzione che il potere politico possa prevaricare garanzie e regole, anche in democrazia, mediante una fattuale “dittatura della maggioranza”. Vale invece la lezione di Norberto Bobbio che riconosce un rapporto di autonomia senza separazione, di reciproca feconda influenza tra etica e politica. No allo Stato etico che le identifica e insieme no alla “cieca prassi” del potere che le estranea. Si alla “etica pubblica” ovvero alla politica orientata ai valori e principi costituzionali, non sottomessa al sistema di sotto-potere e all’intreccio con gli affari. Se ancora possibile.

 

Valentino Ballabio

 

(*) in particolare: W. Mapelli G. Santucci, “La democrazia dei corrotti“, BUR, 2012



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