23 luglio 2014

BIENNALE DI ARCHITETTURA 2014: QUALE MODERNITÀ?


Nella prima parte del nostro resoconto abbiamo trattato delle due sezioni Elements of Architecture e Monditalia realizzate rispettivamente nel Padiglione Centrale dei Giardini e nelle Corderie dell’Arsenale. Prendiamo ora in considerazione come alcuni dei 66 paesi partecipanti hanno affrontato e restituito la propria interpretazione del tema Absorbing Modernity 1914 – 2014 proposto da Rem Koolhaas.

12battisti28FBL’arco di tempo tra i più travagliati della nostra storia, comprende il cosiddetto “secolo breve” che Eric J. Hobsbawm fa iniziare proprio nel giugno del 1914 con l’assassinio di Sarajevo e ha visto l’affermazione dei totalitarismi, due guerre mondiali, la fine dei colonialismi, il boom economico, la guerra fredda, la competizione tra economia liberista e pianificata e la caduta del muro di Berlino.

Si chiude nel 1991 con la fine dell’Unione Sovietica e il superamento degli equilibri che avevano tenuto sotto controllo il pianeta, dando sbocco alla situazione di generalizzata instabilità nella quale ci troviamo attualmente e all’avvento della questione islamica.

Una storia molto complessa nei cui confronti ciascun paese ha necessariamente dovuto operare delle scelte, incorrendo in omissioni e semplificazioni spesso incomprensibili, come la Germania nel cui padiglione è stata ricostruita una porzione del cosiddetto Kanzlerbungalow – il bungalow del cancelliere – residenza realizzata nel 1964 a Bonn per Ludwig Erhard.

Fig. 1

Kanzlerbungalow. Il bungalow del Cancelliere, Bonn 1963-1965 – Franz Joseph Ruf

Questo edificio viene messo direttamente a confronto con l’edificio che lo contiene, il padiglione della Germania appunto, realizzato più di un secolo fa, nel 1909, originariamente come Padiglione Bavarese e rimodellato nel 1938 per renderlo più consono alla Germania del Reich.

Fig. 2

Padiglione della Germania realizzato nel 1909, ricostruito nel 1938 durante il III Reich da Ernst Haiger

È veramente difficile comprendere il significato che si pretende di ricavare dalla giustapposizione materiale di questi due edifici e sembra che l’estrema sintesi alla quale si è fatto ricorso rappresenti il dispositivo di una grande rimozione rispetto alle vicende del passato, ma anche rispetto a quelle della contemporaneità, della riunificazione, del trasferimento della capitale di nuovo a Berlino accompagnata dai fasti architettonici della nuova sede del Bundestag di cui siamo stati testimoni.

Fig. 3

Palazzo della Cancelleria Federale, Berlino, 1995-2001 – Charlotte Frank e Axel Schultes

Per quanto non sia possibile riferire compiutamente come ogni Paese abbia affrontato il tema assegnato da Koolhaas va riconosciuto che i più se ne sono fatti carico con particolare impegno e senza eludere le questioni fondamentali.
Come il padiglione Francese, curato da Jean Louis Cohen che ponendosi l’interrogativo La Modernité, promesse ou menace? affronta le contraddizioni della grande accelerazione tecnologica della prima metà del secolo scorso, presentando e commentando criticamente 101 interventi, uno per anno, dal 1914 al 2014 domandandosi ad esempio, se la prefabbricazione pesante sia stata economia di scala o monotonia o se i grand ensembles d’habitation siano stati una salvifica “eterotopia” o luoghi di reclusione.

Fig. 4

Citè del la Muette, Drancy 1934 – Marcel Lods, Eugéne Beaudouin, Vladimir Bodiansk

Ma anche con ironia citando il film di Jacques Tatie Mon Oncle, di cui si può anche ammirare il bel modello della casa ipermoderna che teneva in ostaggio i suoi abitanti, con l’effetto di trasformare un oggetto di desiderio e uno status symbol in un ridicolo meccanismo.

Fig. 5

Villa Arpel, dal film Mon Oncle di Jaques Tati, 1958 – Scenografia di Jaques Lagrange

Oppure la Clokwork Jerusalem della Gran Bretagna che ripercorre l’itinerario storico che dalla Jerusalem di William Blake attraverso il post-modernismo delle Art’s and Craft, il radicalismo delle Città Giardino di Howard e l’idealismo riformista delle New Towns del dopoguerra approda al Modernismo britannico che, per quanto pragmatico e ancorato alla tradizione, ha generato il radicalismo di carattere tipologico insediativo degli Smithson,

Fig. 6

Robin Hood Gardens, edilizia popolare, East London, 1960-1972 – Alison e Peter Smithson

l’utopico meccanicismo degli Archigram, che hanno avuto come corrispettivo letterario il surrealismo fantascientifico di James Ballard. Un modernismo che con la sua “istituzionale ambizione di essere politicamente, socialmente e architettonicamente incisivo, ci suggerisce un futuro che, per quanto sia oggi impensabile, potrebbe usare la stessa immaginazione per elaborare gli scenari e le strategie della contemporaneità”.

O ancora Svezia, Finlandia e Norvegia, paesi non compromessi con un passato coloniale che, nel loro splendido padiglione dei Paesi Nordici, ci presentano con la mostra Forms of Freedom gli esiti della collaborazione, avviata con i Paesi dell’Africa Orientale negli anni ’60-’80 del secolo scorso realizzando numerosi edifici. Un repertorio di icone di modernità architettonica che avrebbero dovuto favorire crescita economica e benessere sociale, ma quasi sempre senza ottenere i risultati auspicati.

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Padiglione dei Paesi Nordici, Forms of Freedom – Nina Berre, Gro Bonesmo

Poi la Spagna, sempre esemplare, che affronta il tema trattando il modo in cui la propria cultura architettonica ha saputo confrontarsi con molte problematiche degli spazi interni a fronte dell’evoluzione tecnologica e dell’affermarsi della questione energetica con una settantina di casi a catalogo, dodici dei quali realizzati negli ultimi dieci anni non solo in Spagna e presentati con riproduzioni di sezioni prospettiche in grande scala.

Fig. 8

Stazione dell’Alta Velocità, Logroño, 2006-2013 – Abalos + Sentkiewicz Arquitectos

Ciascuna è poi accompagnata da una sintetica rassegna di possibili riferimenti appartenenti all’architettura spagnola del secolo scorso, facendo reagire storia e presente.

Coinvolgente, per quanto un po’ nostalgico, il padiglione olandese dedicato alla rievocazione e celebrazione di Jaap Bakema, figura centrale del Movimento Moderno, che coltivò l’ideale di una società egualitaria e allo stesso tempo aperta, democratica e inclusiva. Come architetto militante egli ha creduto fermamente che l’architettura avrebbe potuto favorire l’emancipazione delle masse insieme a quella dell’individuo e, da alcuni filmati che lo ritraggono al lavoro, si nota con quanta ingenua immediatezza egli abbia progettato gli spazi e le funzioni della città razionalista. Open è l’iniziativa del Centro Studi Jaap Bakema che programma di raccogliere proposte e suggerimenti, validi oggi, per una società aperta che possa in qualche modo portare avanti quegli ideali (open.jaapbakemastudycentre.nl).

Trai padiglioni dei paesi non europei quello Cileno, premiato con il Leone d’Argento, con titolo Monolith Controversies affronta le problematiche sociali e culturali della politica abitativa del governo di Salvador Allende. Politica perseguita con la prefabbricazione pesante simbolizzata da un elemento edilizio standardizzato – un modulo di muro prefabbricato di calcestruzzo – utilizzato anche in Unione Sovietica per realizzare 170 milioni di abitazioni nella seconda metà del secolo scorso. Si entra nel padiglione attraversando la casa operaia di carattere piccolo borghese e kitsch della quale sono stati presi ad esempio soggiorno e sala da pranzo della signora Silvia Gutiérrez con i 514 oggetti che ne costituiscono l’arredamento. Questo allestimento ci mostra come il singolo abitante abbia tentato di difendere la propria individualità caratterizzando l’abitazione assegnatagli senza tuttavia poter evitare l’effetto claustrofobico dovuto alla dimensione degli spazi.

Fig. 9

Padiglione del Cile, panello prefabbricato della fabbrica KPD, 1972


Si può comprendere, soprattutto in base al suo significato politico, l’assegnazione del Leone d’Oro al padiglione coreano che propone una improbabile ricomposizione della millenaria cultura del Paese misurandosi con l’insanabile contraddizione seguita alla divisione in due stati ideologicamente e politicamente contrapposti che da decenni stanno perseguendo linee di sviluppo economico e sociale totalmente alternative. The Korean Peninsula, l’entità geografica che attualmente costituisce l’unica realtà comune, è assunta quale scenario di questa scissione restituita in modo esemplare dalle immagini fotografiche di Alessandro Belgiojoso che ha fatto e documentato, ante litteram, un impossibile viaggio tra i due paesi.

Korea an impossible Journey?

Posti di guardia sul confine tra le due Coree, 2006 – 2007 Alessandro Belgioioso

Poco comprensibile il padiglione Cinese intitolato Mountains beyond Mountains nella consueta localizzazione alle Gaggiandre adiacente a quello italiano, che sembra eludere sostanzialmente il tema, lasciando al visitatore il compito di approfondirlo raccogliendo informazioni sulle singole architetture rappresentate attraverso 400 cartoline aventi come soggetto edifici cinesi degli ultimi 100 anni. Lo scenario del padiglione è realizzato con la giustapposizione e sovrapposizione di moduli, ottenuti dal recupero delle confezioni del latte, a formare un paesaggio interno di spalti e gradoni per favorire la sosta e momenti di socialità, alludendo alla stretta correlazione tra la mostra e la vita reale.

Fig. 11

Allestimento del Padiglione Cinese – Jun Jiang

Mountains beyond Mountains non è quindi una vetrina per architetti e pretende di essere un evento a favore dell’architettura ma eludendo le questioni che hanno riguardato la turbolenta storia del paese: la fine delle dinastie imperiali, la Lunga Marcia con l’avvento del comunismo, la rivoluzione culturale e il capitalismo di stato della fase attuale.

Molto più interessante del padiglione degli Emirati, la ricognizione presentata dal Regno del Bahrain Fundamentalists and Other Arab Modernisms, Architecture from Arab World 1914 – 2014 (a Selection), svolta su cento edifici individuati in ventidue stati dal Marocco all’Iraq. Nella brevissima introduzione al volume a disposizione dei visitatori in migliaia di copie nel bell’allestimento l’architetto libanese Bernard Khoury ci fa notare che l’evoluzione dell’architettura nel mondo arabo ha accompagnato la nascita e lo sviluppo del progetto pan-arabo per la costituzione di una grande unica nazione, che è coinciso, a sua volta, con il germogliare del modernismo, i cui semi vi arrivarono attraverso le potenze coloniali europee: una contraddizione originaria che fece fallire il progetto come condizionato dalla assunzione di una modernità senza basi e che favorì la nascita dei nazionalismi e dei fondamentalismi.

Fig. 12

Padiglione del Bahrain – Bernard Khoury, George Arbid

I cento edifici rappresentano il tentativo di documentare l’eredità architettonica dell’ultimo secolo, in parallelo con specifici eventi politico sociali che si sono verificati durante lo stesso periodo storico. È istruttivo osservare come, in molti casi, i progettisti di cultura islamica abbiano assunto alcuni stereotipi dell’architettura occidentale e come gli architetti occidentali abbiano cercato di interpretare gli stilemi della tradizione islamica.

Fig. 13

Quartier generale del monopolio del tabacco, Bagdad, Iraq, 1965-1967 – Rifat Chadirji

Fig. 14

Doha Tower, Doha, Qatar, 2005-2012 – Jean Nouvel

Tema ripreso con meno consapevolezza e incisività dal Marocco che anch’esso gioca con il titolo della Biennale che declina come Fundamental(ism)s proponendosi di interpretare il tema proposto da Koolhaas rispetto a ciò che il Paese e il suo territorio desertico hanno suscitato in quanto a scelte radicali e sperimentali. Mentre una prima sezione illustra, in modo abbastanza frammentario, il percorso storico dal 1914, una seconda sezione presenta i fantasiosi progetti del concorso Abitare il Deserto, bandito per l’occasione, al quale hanno partecipato sia Stefano Boeri Architetti che Ultra Architettura.

Fig. 15

In Sertum, Abitare il deserto, 2014, BAO + Ultra Architettura


 
 
È francamente difficile immaginare cosa potrà uscire dalle complesse attività programmate da Hans Ulrich Obrist per il Padiglione della Svizzera per rivisitare il recente passato dell’architettura come mezzo per comprendere il futuro, attraverso una retrospettiva dedicata allo svizzero Lucius Burkhardt e all’inglese Cedric Price. Entrambi scomparsi nel 2003 sono stati due grandi visionari per i quali ha assunto importanza particolare la pratica del disegno.

Fig. 16

Fun Palace, vista dell’interno, ca.1960-1964 – Cedric Price


 
Gli archivi dei loro disegni, visibili attraverso pareti vetrate ma non accessibili al pubblico (sic), sono la componente fondamentale dell’allestimento di Herzog & de Meuron ospitato nel padiglione. Questo, per i sei mesi di durata della Biennale, dovrà funzionare come una mostra in costante evoluzione e come scuola di architettura che metterà in relazione i visitatori-studenti con una rete internazionale di pensatori e ricercatori per riflettere sul paesaggio contemporaneo.

Poiché non è possibile commentare ogni singolo padiglione nazionale, mi sono limitato ad alcuni che, mi sembra, abbiano presentato le interpretazioni più significative del tema oppure che l’abbiano ingiustificatamente eluso. In ogni caso, il materiale su cui riflettere offerto a tutti noi e le occasioni di studio per gli storici, non solo dell’architettura, sono molto consistenti e danno riscontro al proposito di Koolhaas di superare il monografismo autoriale delle riviste e della pubblicistica, cercando di parlare di architettura e non di architetti.

C’è la possibilità di ricomporre il quadro delle interazioni che si sono avute a scala mondiale, in una nuova storiografia dell’architettura che dia conto dei reciproci influssi, anche se le circostanze che li hanno favoriti sono state la colonizzazione diretta e indiretta e la subordinazione politico culturale esercitata dai paesi egemoni. Cercando tuttavia di capire veramente come i processi di modernizzazione siano stati declinati nei differenti contesti, ove si sia avuto sviluppo e progresso oppure solo crescita e sfruttamento.

Koolhaas non ha fatto una Biennale partendo da ciò che egli conosce meglio ma proponendosi di mettere in luce proprio ciò che tutti noi conosciamo meno. Ha ribaltato il format della manifestazione da un’occasione per informare e promuovere a un’opportunità per ricercare e conoscere facendone, più che una mostra, un laboratorio.

Questo è quanto ci è stato prospettato all’inaugurazione ma bisognerà vedere se le promesse potranno essere mantenute.

 

Emilio Battisti

 



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