27 luglio 2009

SULLA SOLITUDINE DEL POLITICO


Antoniazzi, tempo fa nel commentare l’esito delle Provinciali di Milano, ha puntato il dito sulla “solitudine” del politico.

Una doppia solitudine in realtà, la prima subìta, la seconda cercata: la prima segna la distanza tra “popolo” e politica, la seconda segna il profilo di una specifica strategia.

Sulla prima si è già detto tanto, quindi propongo qualche pensiero sulla seconda.

Antoniazzi addebita, sostanzialmente, alla strategia veltroniana del “se po fà …da soli”, la massima responsabilità delle attuali difficoltà del PD.

Certamente si può convenire in generale che non c’è politica senza mediazione, senza compromesso, senza egemonia, intesa come capacità di contemperare sul proprio disegno strategico differenze tattiche anche rilevanti: per questo chi va da solo sembra più che altro confessare la sua incapacità di porsi in relazione positiva con altri e di avere effettivamente capacità strategica effettiva.

Nel campo del centrodestra, Berlusconi ha dato e dà tuttora chiara dimostrazione di capacità egemonica, unendo dietro di sé, in una articolata scomposizione e ri-composizione di interessi, entità sociali, culturali e politiche assai distanti tra loro.

Tra lega ed an, tra garantiti statali e piccoli imprenditori, tra nord e sud, tra Lombardo e Boniver, passa ben più di una frattura, eppure il campo del centrodestra è tuttora compatto.

Di questa capacità egemonica il centro sinistra non ha saputo dare altrettanta dimostrazione sul proprio campo: prima e più che il solipsismo veltroniano, però si dovrebbe riconoscere che la debacle elettorale dell’Unione è venuta da un’azione di governo letteralmente divorata dai contrasti interni e guidata da una visione tecnocratica che gli ha alienato una gran parte del consenso popolare.

Di qui è partita l’onda lunga di un distacco diffuso dal centrosinistra (ricordiamo il 25% di consenso al Governo Prodi a ridosso delle elezioni?) che non si dovrebbe mettere in conto a Veltroni.

Non che questi non abbia compiuto gravi errori.

A Veltroni andrebbe addebitato prima di tutto un peccato di ingenuità, che forse è il più grave per un politico: l’aver dato credito ad una qualsiasi forma di agreement con Berlusconi (come il suo gemello Massimo dieci anni prima al tempo della bicamerale..), non comprendendo il doppio suicidio tattico determinato dalla sua opzione secca verso il bipartitismo (discorso di Foligno): Berlusconi se ne è fulmineamente avvantaggiato per ricompattare il proprio schieramento (discorso del predellino), mentre il centrosinistra, già ormai imploso, si è disgregato senza rimedio.

Il solipsismo veltroniano in realtà è stata la reazione ingenua ed identitaria di un gruppo dirigente di fronte alla conclamata ed apparentemente irrecuperabile crisi di rapporti con le altre componenti del centrosinistra, ormai non più gestibile nelle condizioni date: l’aver dato credito orgogliosamente alla possibilità del “facciamo da soli” ha soltanto cercato di nascondere a sé stessi il problema ineludibile del nuovo profilo del centrosinistra, la questione chiave di una nuova sintesi politica.

La crisi della politica delle alleanze, ed il dissidio circa quali ricercare, nasce esattamente da qui, dalla inadeguatezza e dalla scarsità di consenso relativo su di un disegno politico all’altezza delle condizioni del nostro Paese.

L’aver unito due grandi tradizioni, quella comunista e quella cattolica, non sembra aver prodotto ad oggi quella sostanziale innovazione attesa da molti, e forse il perimetro di questa innovazione non pare essere compatibile con quello definito dalla loro reciproca e faticosa mediazione.

Intendo dire che il grande assente nella cultura del PD è un maggioritario filone di cultura laica e riformatrice, in sintonia con tempi in cui la cultura solidaristico-statale appare sempre più inadeguata a rappresentare il dinamismo e la domanda di libertà, e responsabilità, espressa dalla società e dai suoi fermenti, a partire dalla diffusione delle imprenditorialità come forma di produzione del valore ed affermazione di libertà personale e sociale.

Tornando però al punto specifico, senza dimenticare quanto appena detto, è ben visibile ora una doppia opzione: la prima vede la relazione con l’UDC come perno della strategia futura, la seconda punta su di una ripresa del colloquio a sinistra, stimolando e favorendo una riaggregazione che renda maggiormente omogenea al PD una realtà di opposizione sì radicale ma non infantile ed ideologica.

In quest’ultima direzione, appare possibile anche avvicinare Di Pietro, la cui distanza dal PD non è certamente superiore di quanto non fosse, e forse ancora è, tra Lega e Partito della Libertà.

Penati, chiaramente, ha puntato sulla prima opzione e, sotto questo stretto profilo, non gli dovrebbe essere contestata la “solitudine” del politico: una scelta di alleanze l’ha fatta, e l’ha condotta quasi al successo. Ma si deve anche convenire con Antoniazzi che le percentuali di astensionismo devono indurci a non fondare su questo esito elettorale, apparentemente meno disastroso del previsto, un’aspettativa di recupero di consensi in realtà al di là da venire.

E allora, e di nuovo, se si deve condividere lo stimolo a fare politica, a cercare alleanze, a mediare obiettivi ed interessi, non si può evitare di mettere sul tavolo la prima e più importante delle questioni.

Quale Politica? Quale Programma? Quale Visione?

Cosa punta ad essere il PD nello scenario della crisi del 2009-2010?

A chi si rivolge per chiedere mandato di rappresentanza?

Quale visione intende dare del futuro del nostro Paese?

Senza affrontare questi nodi, qualsiasi ricerca di alleanze pur doverosa apparirebbe di corto respiro, si ridurrebbe inevitabilmente ad un affannoso, e sempre più contraddittorio, agitarsi alla ricerca di qualche convenienza momentanea priva di reale prospettiva.

Oppure, come ha ben dimostrato Lo Schiavo con la sua raffinata analisi da entomologo della politica, tutto rischia di ridursi ad una frammentazione esasperata il cui unico senso comune è la prevalenza di interessi personali su quelli generali.

D’altra parte è anche vero che se applicassimo lo stesso microscopio all’Ultima Cena “vedremmo” solo incrostazioni di colore, muffe e altri batteri e ci “convinceremmo” che quella crosta è proprio da buttare.

E allora appare essenziale ri-collocarsi alla giusta altezza, e con questa ri-collocare dissidi e conflitti nel contesto complessivo di una ricerca di sintesi politica ancora inedita.

Ben venga allora il 1° Congresso del PD, occasione a cui rivolgersi per sciogliere questi duri nodi consegnati dalla storia, ed ultima occasione per quel tentativo politico di essere protagonista dell’innovazione politica italiana.

E se i nodi non si sciolgono ….. che si taglino, come il nodo gordiano (sempre sperando in un Alessandro Magno).

Giuseppe Ucciero

 

 

 

 


 



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