27 luglio 2009

UN ESAME PER IL MINISTRO GELMINI


La studentessa allargò le braccia, con uno sguardo che diceva: “OK, se vogliamo esagerare esageriamo, ma ovviamente non si aspetterà che possa rispondere a domande simili”. Le avevo chiesto dove fosse lo stretto di Gibilterra. Incredulo davanti alla sua reazione, collocandole davanti una carta del Mediterraneo, la pregai di tentare almeno un’indicazione a caso: venne fuori che Gibilterra era in Turchia.

Poco prima, un suo collega, alla mia frase “questo accadeva al tempo della Rivoluzione francese”, aveva aggrottato le sopracciglia con un’espressione interrogativa, e, accostando all’orecchio la mano a guisa di conchiglia, aveva chiesto “rivoluzione…?”: come dire “di che roba sta parlando?” Balbettai, incredulo “ma… francese, la Rivoluzione francese! Mai sentita nominare?” Dopo un attimo di silenzio, il giovane, poco convinto, incurvò le labbra, scosse la testa, e soggiunse: “a scuola non l’abbiamo fatta”.

Eravamo in un’aula universitaria, dove studenti del terzo anno di un corso di laurea umanistico (non dirò quale) mi confermavano in una vecchia, radicata, solidissima e reazionarissima convinzione. Che la scuola non funziona più, e non funziona più perché, da quarant’anni, a scuola non si boccia. Checché si pensi di questa mia eresia, la questione sembra tornata d’attualità: i giornali hanno parlato recentemente -chi con simpatia, chi con ostilità, per la maggior parte con prudenza neutrale- di un grande ritorno delle bocciature a scuola. La ricreazione è finita, insomma, è arrivato il castigamatti, nei panni della ministra Gelmini, e dato che anche l’Arcipelago s’è occupato della questione, mi permetto di esprimere qui qualche opinione in materia.

1) E’ una decina di anni, ma forse di più, che a ogni inizio dell’estate si legge sui giornali di un incremento delle bocciature: se ne parla, almeno, a ogni riformina degli esami di maturità, dal ministero Berlinguer in poi. E tuttavia, ogni volta, le percentuali degli studenti maturi variano di qualche punto decimale, dal 98,7% al 98,4 %, o simili; e quest’anno, questo catastrofico anno, a quanto ho letto, le promozioni complessivamente superano il 95%. Domanda inutile: ha senso mantenere in piedi un’istituzione come l’esame di maturità, con commissari che viaggiano, diarie da pagare, fuga di temi via Internet, telefonini etc., se il risultato si avvicina tanto al todos caballeros? Non sarebbe meglio dare a tutti gli studenti un certificato che attestasse “è andato a scuola”, come una specie di congedo militare, senza proclamare solennemente che lo studente è maturo per gli studi superiori?
2) Ho parlato degli esami di maturità: ma la situazione è la medesima nelle scuole di ogni ordine e grado, come si suol dire. Magari le percentuali dei bocciati varia un po’, ma la filosofia generale è la medesima: l’orrore per la bocciatura, considerata dalle famiglie un incomprensibile usurpazione di diritti, e dai presidi una iattura da evitare con ogni sforzo. I ricorsi, regolarmente presentati e regolarmente vinti dai ricorrenti, e la paura di perdere iscritti, sono ragioni sufficienti per cui nei consigli di classe si esercitino pressioni molto energiche perché i quattro diventino sei, e i tre diventino cinque, nella pacifica convinzione che con i cinque non si boccia (chiedo scusa per il lessico arcaico: oggi si parla di “debito formativo”. [La parola “formativo” non è mai stata tanto in voga nella scuola e nell’università]). Si comincia dalle elementari e dalle medie, naturalmente, dove l’espressione “scuola dell’obbligo” è intesa comunemente come “scuola con obbligo di promuovere”. Ma si finisce all’università, dove, anche se pochi lo sanno, non si boccia mai. All’università non si boccia da decenni: se lo studente va male, si straccia il verbale, e si fa finta che lo studente non si sia presentato. Non si scrive “respinto”, ohibò, come si faceva una volta, quando lo studente -a me è capitato- doveva anche pagare una tassa per la ripetizione di un esame. E perfino nei moduli prestampati dalle segreterie per i verbali a lettura ottica, m’è capitato di vedere che la casella “non promosso” o “respinto” non è nemmeno prevista. Insomma, anche se allo studente di fatto capita di ripetere un esame, è bene che la cosa avvenga senza visibilità, senza clamori, non ufficialmente. Una scuola e un’università sans peine. E che rimane ancora sans peine, poiché, glorificata o vituperata che sia, la fama della ministra Gelmini è, a me pare, alquanto usurpata. “Ha ripristinato il cinque in condotta”. Perbacco, che misura draconiana! Peccato che -se il cinque può implicare la bocciatura- un buon voto in condotta faccia media, ovviamente rialzandola, con i voti delle altre materie. O dunque? Dov’è questo mostro di rigorismo?

3) Ora, benché nutrito di cultura arcaica, non sono così fuori dal mondo da non aver mai sentito dire ciò che da decenni si dice: la scuola è fatta per promuovere il sapere, non per bocciare gli studenti; dev’essere accogliente, non arcigna; delle sue inefficienze gli studenti sono vittime, non è giusto che siano loro a pagarle; le bocciature non risolvono i problemi; la scuola ha bisogno di altro, deve fare tante belle cose etc. etc., riassumendosi il tutto nel sublime apoftegma “una scuola che boccia boccia se stessa”. Né sono così fuori dal mondo da pensare che in queste argomentazioni non ci sia qualcosa di buono e di vero. Certamente la scuola non ha come missione le bocciature, e queste certamente non risolvono i problemi della scuola. E’ vero, ovviamente, che una scuola che boccia non è di per sé una scuola buona. Ma è sicuro che una scuola che non boccia è una scuola cattiva. Esiste infatti un equivoco di fondo, di cui la società italiana è oramai intimamente permeata. Che la scuola sia un luogo dove esistono gli operatori e i fruitori. I primi – gli insegnanti – devono essere così bravi da saper mettere in piedi qualcosa che chiamerei uno spettacolo di successo; i secondi, assistendo a questo spettacolo, devono imparare. Se non imparano, vuol dire che lo spettacolo non era buono, non interessava abbastanza, ed è colpa di chi lo ha messo in piedi. Purtroppo, però, questa tesi dimentica una verità elementare, che una volta era pacifica, e apparteneva al deposito del sapere tradizionale, e che oggi a quanto pare si scontra con il senso comune. Che cioè lo spettacolo -se vogliamo chiamarlo così- a scuola lo si mette in piedi insieme, insegnanti e studenti. La preparazione degli alunni non dipende solo da chi insegna. I ragazzi non sono un juke-box, introducendo nel quale la moneta giusta, viene fuori la musica richiesta. La scuola è una faccenda in cui si lavora in due. Il maestro spiega, ma il ragazzo deve stare attento. Il maestro insegna, ma il ragazzo si deve esercitare su ciò che gli è stato insegnato. La lezione può essere ottima, ma poi bisogna studiare a casa. Insomma, il lavoro si fa in due, anzi in tre. I professori devono insegnare bene, i ragazzi devono lavorare bene, e i genitori devono a loro volta occuparsi del fatto che i ragazzi lavorino. Cose vecchie ed elementarissime, ma essenziali. Possibile che ci sia bisogno di ripeterle oggi? Sì, è possibile, anzi è necessario, perché più che mai oggi, in cui si chiede che la scuola promuova cultura, abbiamo una scuola che promuove soprattutto studenti.

4) Certamente esistono professori che non sono all’altezza del loro compito: oh, se ce ne sono! E per lo più sono passati attraverso un’università già intaccata dalla filosofia spicciola di cui ricordo benissimo gli slogan e i cartelloni: abbasso la meritocrazia, no alla selezione, sì alla scuola democratica, etc. etc. Quegli studenti, tra l’altro, una volta laureati, non sono stati sottoposti ai vecchi, stantii, selettivi, esami di abilitazione, ma sono passati attraverso una burletta che si chiamava ‘corsi abilitanti’, in cui ad esempio il candidato concordava qualche mese prima su che cosa avrebbe scritto, a casa, il suo pensum, e su quest’unico elemento sarebbe stato valutato. Esito? Abilitati in massa, che hanno atteso anni e anni di entrare in ruolo per pura anzianità. Maestri e genitori cresciuti in questo clima, salvo un’eroica presa di coscienza individuale, difficilmente saranno all’altezza del loro mestiere, e figuriamoci poi con che sensibilità potranno applicare i criteri rigorosi di giudizio che richiede una scuola seria.

Perché, la scuola, seria deve essere: non tetra, non arcigna, ma, appunto, seria: ossia severa nell’educare alla responsabilità. I contenuti disciplinari possono cambiare, e di solito il sapere scolastico è sempre un po’ arretrato rispetto alle novità della scienza e della storia. Ma anche col programma più obsoleto, anche nella scuola meno up to date, se i fondamentali sono assicurati, una cosa s’impara: a essere responsabili di ciò che si fa e di ciò che non si fa. Se un bambino, come oggi avviene, impara fin da piccolo (e lo impara, OH se lo impara) che alla fine dell’anno, che abbia studiato o no, per lui c’è il lieto fine assicurato, imparerà prestissimo a non essere responsabile di ciò che fa. E per converso, se un ragazzo non si abitua fin da piccolo a sapere che esistono esami, prove da superare, ostacoli che rendono il cammino della vita impegnativo, risulterà psicologicamente fragilissimo: ed ecco infatti la spaventosa realtà che vede, tra i pochi non graziati da questa scuola sans peine, ogni tanto qualche ragazzo suicidarsi. Come a dirci che nella scuola a promozione di massa, non riuscire a raggiungere nemmeno quella è un’infamia insopportabile.

Mentre tutti, genitori e presidi, docenti e studenti, dovrebbero sapere ciò che a noi studenti di scuola media spiegava con semplicità il professore di lettere: la bocciatura non è un marchio d’infamia, è una constatazione di fatto, che va interpretata e vissuta serenamente. Chi sa, va avanti procedendo verso un sapere più complesso. Chi non è ancora pronto per questo, aspetta per prepararsi meglio. Queste cose, all’opposto di quanto si pensa, i bambini le capiscono con naturalezza, e non è un caso se in Francia, ad esempio, la percentuale delle bocciature è alta soprattutto nella scuola primaria. Ma a una società da quarant’anni abituata a una scuola facilista far digerire queste elementari verità è un’operazione impervia. E infatti non la tenta nessuno.

5) E ora un piccolo discorso politico. Non mi attardo a stabilire chi abbia responsabilità nello sfacelo. Ce l’hanno un po’ tutti: l’ideologia egualitaria della sinistra, l’indulgentismo democristiano, il vuoto culturale della destra. Ma il momento è grave. L’Italia non è autarchica, e si misura con gli altri paesi: quanto a lungo può permettersi di divagare, di fronte a questa questione capitale: vogliamo una scuola seria sì o no?

Ora qui devo confessare un mio disagio personale, da cittadino e da elettore. Non c’è nulla che io desideri di più della fine dell’era berlusconiana, da cui mi sento avvilito e oppresso ben più di quanto mi bastino le parole per dire. Ma vorrei chiedere alla sinistra, in cui certi idola tribus (“il diritto al successo scolastico”! “La carta dei diritti degli studenti”!!!) hanno trovato e trovano i teorici e i cantori più convinti. Ma non vi accorgete come la più radicale, la più sostanziosa, la più decisiva opposizione al berlusconismo e a tutto ciò che rappresenta (strafottenza nei confronti delle regole; apparire invece che essere; successo facile e senza fatica; condono delle malefatte; e potrei continuare), la più potente arma, nei confronti dell’aria mefitica che respiriamo da quindici anni, sia la ricostruzione di una scuola seria? So quanto poco la sinistra sia preparata ad accettare questo. Ricordo una volta Veltroni, intervistato in TV su questi punti, in un evidente disagio, riconoscere a denti stretti che sì, la scuola deve premiare il merito [N. B. NON sanzionare il demerito], ma subito precipitarsi ad aggiungere che ci sono tante cose di cui si deve tenere conto, le abilità artistiche, le facoltà creative etc. etc. Caro Veltroni, si può tener conto di tutto: ma alla fine, chi sa procede, chi non sa aspetta. Siamo d’accordo su questo? Gli studenti somari vanno bocciati: siamo d’accordo su questo? I professori somari vanno cacciati: siamo d’accordo su questo? Ahimè no! Già mi vedo studenti, famiglie, sindacati della scuola, CIDI, partiti di sinistra, i mille e mille fautori della ‘scuola democratica’ rispondere disgustati che i problemi della scuola sono ben altri.

E invece no. I problemi della scuola sono questi, e questo è anche il problema del nostro paese.

La paura di dire di no è il tallone d’Achille di questa società, e se la amassimo abbastanza faremmo ogni sforzo per guarirla. “La scuola che boccia boccia se stessa”: belle parole, slogan efficace. Ma ho paura che siano soprattutto i responsabili di questo disastro che, recitando questo mantra, vogliano assolvere se stessi. La Gelmini non va contestata perché vuole una scuola severa. Va sfidata a fare sul serio. Se lei, la laureata in legge che andò a fare l’esame di stato in una sede facile, e che già da liceale aveva lasciato il suo glorioso liceo statale per “maturarsi” in una più accomodante sede privata, dimostrerà di aver finalmente capito che la scuola è una faccenda molto seria, le diremo brava! E sarà questa la prima vera alternativa alla cultura berlusconiana, di cui, come cittadino, io non potrò che sentirmi soddisfatto

Mario Cantilena

 
 

 


 



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