9 luglio 2014

arte – LA GENESI DELLA BELLEZZA DI SALGADO


 

LA GENESI DELLA BELLEZZA DI SALGADO

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Un fotografo tra i più amati inaugura il nuovo Palazzo della Ragione. Nuovo perché finalmente il Comune di Milano ha deciso di usare lo storico palazzo per farlo diventare il centro deputato ad accogliere qualcosa di continuativo, nello specifico mostre di fotografia. Dopo la chiusura di Spazio Forma, si tenta di ripartire puntando sul riutilizzo di un edificio centralissimo e davvero suggestivo, a contatto con una forma espressiva tra le più amate degli ultimi anni. Ecco perché per la prima mostra in loco si è scelto di partire davvero in grande con il progetto Genesi, l’ultima fatica del brasiliano Sebastiao Salgado.

Genesi è un progetto decennale, iniziato nel 2003 e concepito, usando le parole di Salgado stesso, come un canto d’amore per la terra e un monito per gli uomini. Un viaggio fatto di 245 scatti in bianco e nero divisi in cinque sezioni per raccontare un mondo primigenio e ancora puro, un mondo fatto di animali, natura e uomini che vivono insieme in armonia ed equilibrio. Quello stesso equilibrio che viene rovinato ogni giorno dalla noncuranza della maggior parte del mondo “civilizzato”, che sembra dimenticarsi delle sue stesse origini.

Sono a tratti commoventi le immagini presentate, dagli scatti dei maestosi ghiacciai del circolo polare artico, alle dune del deserto che creano disegni quasi perfetti, passando per tutti i cinque continenti.

Montagne, foreste pluviali, canyon, animali della savana o mandrie di renne, pinguini e iguane, abitanti di tribù quasi estinte con tradizioni per noi quasi intollerabili alla vista, come la scarificazione, scorrono davanti agli occhi dello spettatore per ricordagli la ricchezza e la vastità del nostro mondo. Così era all’inizio, così dovrà essere sempre, sembra ammonire Salgado.

Un vero e proprio atlante animale e antropologico, che diventa non solo un viaggio affascinante alla scoperta del nostro pianeta, ma soprattutto un grido di allarme per cercare di riparare ai danni fatti e alla preservazione della flora e della fauna mondiali.

Una immersione a tutto tondo quella di Salgado, non solo perché il fotografo stesso ha vissuto per diverso tempo in ambienti estremi e a contatto con la natura più vera, ma anche perché Salgado porta in mostra frammenti di mondo che sembrano essere lontanissimo da noi, come le immagini delle tribù del Congo, dei Boscimani e degli indigeni brasiliani, ritratti davvero in totale armonia con il proprio habitat naturale.

“Abbiamo fatto una ricerca e abbiamo fatto una scoperta molto interessante: circa il 46% del mondo è ancora come il giorno della genesi” ha detto Salgado in conferenza stampa, aggiungendo che insieme tutti possiamo continuare a fare in modo che la bellezza della Genesi non scompaia mai.

Genesi, Sebastiao Salgado Fino al 2 novembre Milano, Palazzo della Ragione Orari: mar – merc – dom: 9.30-20.30 giov – sab: 9.30-22.30 Biglietti: intero 10 euro, ridotto 8,50 euro.

 

DECOLLAGES E RETRO D’AFFICHE: ROTELLA TORNA A MILANO

Mimmo Rotella. Décollages e retro d’affiches“, è la mostra curata da Germano Celant che tenta di ricostruire in modo puntuale la nascita e lo sviluppo dell’arte di Rotella, noto ai più per i famosi manifesti strappati. La retrospettiva è soprattutto una ricognizione incentrata sugli anni giovanili dell’artista, e grazie a circa centosessanta opere presenti, si focalizza sul periodo che si estende dal 1953, anno delle prime sperimentazioni sul manifesto lacerato, per arrivare al 1964 quando Rotella partecipa alla XXXII Biennale di Venezia.

Il percorso dell’esposizione, costruito curiosamente a ritroso, analizza alcuni momenti fondanti dell’inizio della carriera dell’artista. Il visitatore partendo dalla prima sala, il trionfo di Rotella in Biennale nel 1964, avrà modo di assaporare quegli anni vitali, frenetici e ricchi di sperimentazioni artistiche. Iniziando “dalla fine” si arriva gradatamente a comprendere, passo dopo passo, perché Rotella iniziò a strappare e usare manifesti pubblicitari presi dalla strada, quegli stessi manifesti che diventarono il suo marchio di fabbrica.

Il clima vivace dell’epoca è testimoniato anche dalla scelta, tre o quattro per sala, di opere di altri artisti, più o meno direttamente legati a Rotella. Amici, colleghi, esempi ispiratori e a lui contemporanei sono affiancati ai manifesti per testimoniare di una influenza forte e reciproca, di un modo altro di intendere l’arte, un’arte che si concentrava sulla materia, i materiali poveri e soprattutto l’immagine, dall’esplosione della Pop art in poi. Iniziando dai futuristi Marinetti e Prampolini, il percorso di Rotella si arricchisce grazie agli influssi fondamentali di precursori come Kurt Schwitters e Hannah Höch; passando poi per Jean Fautrier, Alberto Burri, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Raymond Hains, Andy Warhol e Michelangelo Pistoletto.

Dal linguaggio maturo del 1964 all’intuizione della lacerazione del 1953, il percorso della mostra racconta un artista complesso e presente nel suo tempo, come dimostra anche la vicinanza al Nouveau Realisme, movimento fondato dal critico Pierre Restany, quasi un parallelo europeo della Pop art americana.

Ed è proprio all’inizio degli anni ’50 che Rotella arriva al manifesto, all’uso dell’immagine pop e rivisitata: il manifesto pubblicitario usato come mezzo per avvicinarsi alla vita reale. Nasce il decollage, lo strappo dai muri di manifesti che vengono assemblati su un supporto dall’artista, che li lacera poi una seconda volta grazie a pennelli o raschietti. Contemporaneamente a queste opere, Rotella inizia anche a sperimentare i retro d’affiches: manifesti sempre tratti dalla strada ma applicati sul supporto al verso.

Rotella, morto nel 2006, rivive a pochi anni di distanza da un’altra mostra a lui dedicata proprio a Palazzo Reale, mostrando ancora una volta il grande apprezzamento rivolto a questo artista dalla critica, proprio a lui che un tempo fu soprannominato malignamente “pittore della carta incollata”.

Mimmo Rotella. Décollages e retro d’affiches” Fino al 31 agosto, Palazzo Reale. Orari: Martedì, mercoledì, venerdì, domenica dalle 9.30 alle 19.30. Giovedì e sabato dalle 9.30 alle 22.30; lunedì dalle 14.30 alle 19.30. Prezzi: Intero € 11,00, Ridotto € 9,50

 

L’INDIA FOTOGRAFATA DA SONJA QUARONE

La Triennale di Milano nello Spazio Material ConneXion presenta la mostra fotografica “Sonja Quarone. Cuore d’Oriente“, che ha come protagonisti scatti fotografici inediti e installazioni nate dalla riflessione dell’artista durante un viaggio in India. La rassegna, a cura di Fortunato D’Amico, è articolata in tre sezioni: Architetture & Landscape, Design (e) Motion, e People. Attraverso 50 scatti la mostra offre un approfondito e personalissimo quadro dell’India visto con gli occhi dell’artista di Vigevano, classe 1972.

I soggetti presenti in mostra spaziano dall’architettura al paesaggio, dalle persone agli oggetti e fanno emergere la riflessione di Sonja Quarone sulla società orientale. Partendo dalla considerazione che il cosiddetto “primo mondo” è entrato in crisi a causa del consumismo senza freni, la Quarone prova a fotografare sul territorio indiano scelte e modi di vita che potrebbero, agli occhi degli occidentali, divenire possibili spunti per tentare di integrare meglio culture, attività e economie sociali diverse, perdute dalla nostra parte del pianete, durante questi anni.

L’artista tramite la messa a fuoco di alcuni elementi e un’accurata elaborazione digitale, mette in risalto precisi dettagli dell’inquadratura, come si nota soprattutto nelle architetture e nei volti di donne, uomini e bambini, dove le immagini sfocate conservano nitidi alcuni dettagli degli edifici e di tratti significativi come sguardi, espressioni e gesti delle mani. L’assenza degli sfondi sostituiti da tenui tonalità monocrome crea un effetto scenografico che isola il soggetto dalla realtà circostante e ne fa risaltare a pieno il significato.

Nelle opere delle sezioni Architetture & Landscape, Design (e) Motion, spiccano scatti in cui l’obiettivo coglie elementi molto diversi fra loro, come grattacieli accanto a vecchie case diroccate; piazze in cui si affacciano antichi templi ricchi di storia accanto a edifici anonimi; strade con fabbricati moderni in cui il traffico automobilistico è fatto anche da carri trainati da buoi; oppure alberghi obsoleti davanti ai quali sostano un vecchio taxi ed un cammello. Squarci di architetture e di vita sociale si alternano dando vita a un panorama variegato che rende l’idea di un mondo diverso e più sfaccettato, rispetto al nostro.

Gli scatti, stampati su supporti differenti fra cui tessuto, la resina e il Krion, dialogano con i mobili antichi indiani utilizzati per le installazioni fotografiche. Fra questi in particolare Vie di fuga, volti stampati su tessuto collocati su un’antica portantina in legno per elefanti; Anime, ritratti di persone di ogni età disposte nelle nicchie della libreria policroma, sul cui retro è collocata la serie Nutrimento con chioschi isolati su spiagge deserte e persone nell’atto di cibarsi.

Sul letto ricavato da un unico tronco di teak e dalle linee essenziali è collocata l’immagine dell’anziano religioso dormiente a significare il valore della meditazione. Non passa inosservata la gigantografia su carta da parati Tutto è nel mezzo, attorno alla quale sono collocate numerose foto di piccole dimensioni dal titolo Foto ricordo, che riportano alle immagini votive presenti nei templi.

Negli scatti di Sonja Quarone si avverte il pensiero relativo alla società indiana di oggi, che nonostante sia caratterizzata da conflitti, rigide scale sociali e sincretismo, è riuscita a preservare le proprie antiche tradizioni. Una naturale predisposizione al viaggio, la curiosità e il desiderio di sapere, spingono l’artista a utilizzare la fotografia documentaria come strumento per esplorare regioni lontane dalla cultura occidentale, ma vicine al suo sentire. L’India non è solo un luogo fisico del mondo, ma anche lo spazio interiore dell’artista.

Sonja Quarone. Cuore d’Oriente Spazio Material ConneXion – Triennale di Milano 20 giugno – 23 luglio 2014 Orari martedì – domenica 10.30 – 13.30 / 14.30 – 20.00 Ingresso libero

 

FRAGILITÀ, EQUILIBRIO E CRITICA PER MEIRELES ALLA BICOCCA

Ancora una volta l’Hangar Bicocca non sbaglia un colpo. La mostra dedicata a Cildo Meireles, Installations è tutta da vedere e provare. Coinvolgente, poetica, critica e polisensoriale, la mostra è la prima manifestazione italiana dedicata all’artista brasiliano, considerato fin dagli anni ’60 un pioniere di quell’arte intesa soprattutto come uno scambio attivo e vitale con il pubblico, come un rapporto vivo e attivo in grado di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza multisensoriale.

La personale, a cura di Vicente Todolí, comprende 12 tra le più importanti installazioni realizzate dall’artista tra il 1970 e oggi, ed è un percorso ricco di suggestioni che portano lo spettatore ad essere parte dell’opera d’arte, a farla vivere, ma anche a mostrargli una realtà concettuale nascosta e su cui riflettere. Cildo Meireles affronta da sempre tematiche sociali e culturali attraverso opere che rivelano pienamente il loro significato solo nel momento in cui sono attraversate e vissute, coinvolgendo oltre alla vista, anche l’udito, il tatto, l’olfatto e addirittura il gusto.

Il percorso è spiazzante, poiché si passa da opere di ridottissime dimensioni ad altre decisamente monumentali. Si inizia con Cruzeiro de Sul, un cubo di legno di 9 mm, che rimanda però a concetti e credenze sacre nella cultura dei Tupi, popolazione india del Brasile con cui Meireles entrò in contatto.

Si arriva poi ad Atravès, labirinto trasparente lastricato da frammenti di vetro rotti, che fa percepire allo spettatore una sensazione di instabilità e di potenziale pericolo, dovendosi districare lentamente tra filo spinato, tendaggi, superfici vetrate (persino due acquari), attraverso le quali sembra di vedere una via d’uscita, resa difficile però dai materiali che creano il percorso. L’attraversamento del titolo simboleggia dunque un percorso interiore accidentato, ogni passo spezza sempre di più il vetro sotto ai piedi, simbolo della fragilità umana, ed è sempre più difficile andare avanti.

Passando dalla torre fatta di radio antiche e moderne, Babel, per arrivare ai cubi bianchi e neri “sporcabili” di Cinza, quello che colpisce è la varietà dei materiali usati, scelti dall’artista solo in base alle loro caratteristiche simboliche o sensoriali, mettendo insieme elementi contrastanti anche dal punto di vista semantico o visivo.

E in effetti Olvido, un tepee indiano costruito con 6.000 banconote di diversi paesi americani, circondato da tre tonnellate di ossa bovine contenute da 70.000 candele, è espressione di questo concetto. Mentre gli occhi sono impegnati a distinguere i diversi elementi, le ossa emanano un odore difficile da sopportare e dal centro della tende fuoriesce un rumore continuo di sega elettrica. Opera con una critica di stampo post-colonialista, spesso presente nei lavori di Meireles, non affronta però lo spettatore direttamente, imbarazzandolo, ma suggerisce il suo messaggio accostando elementi dal valore simbolico.

Una delle opere più amate e fotografate sui social, è sicuramente Amerikka, un pavimento fatto di 22.000 uova di legno dipinte, su cui troneggia un soffitto fatto da proiettili sporgenti. Mentre lo spettatore è invitato ad attraversare scalzo lo spazio bianco delle uova, in una situazione di instabilità, la minaccia è ulteriormente rimarcata da migliaia di proiettili rivolti al suolo. Opera sì di spaesamento ma di incredibile impatto visivo e percettivo.

Meireles lavora con tutti e cinque i sensi. Ecco perché con Entrevendo, un enorme struttura di legno a forma di imbuto, lo spettatore è invitato ad entrare in questo cono, da cui esce aria calda, mettendosi prima in bocca due cubetti di ghiaccio per sperimentare, man mano che ci si avvicina alla fonte di calore, lo sciogliersi del ghiaccio in pochi istanti, per un coinvolgimento completo dei sensi.

E poi si arriva all’opera più poetica della mostra, Marulho, la simulazione di un pontile circondato dalle onde del mare, nella luce delicata del tramonto. Solo ad una visione più attenta si scorgono i dettagli, ovvero che le onde sono fatte da immagini di acqua rilegate in migliaia di libretti disseminati sul pavimento, giocando sulla ripetizione e l’accumulo, con un effetto non solo visivo ma anche simbolico.

Mentre ci si perde a osservare le immagini, ecco che voci, tutto intorno, ripetono all’infinito la parola “acqua” in 85 lingue diverse, creando una nenia simile allo sciabordio delle onde. Solo allora si scopre che, ovviamente, un fondo c’è, la parete lilla che delimita l’orizzonte. Quello che si crea allora nello spettatore è una curiosa sensazione alla “The Truman show“, accorgendosi che in realtà tutto è finto e costruito. Di naturale, non c’è nulla. L’opera vive inoltre di riferimenti ad artisti del passato che hanno giocato sulla monocromia, come Piero Manzoni, citato anche in un’altra opera della mostra, Atlas, e Yves Klein.

Tra suoni, attraversamenti e sensazioni, la personale di Meireles intende mostrare come lo spazio sia una componente fondamentale nell’enfatizzare i paradossi e le metafore, elementi chiave nella sua arte, espressi da queste dodici coinvolgenti installazioni.

Cildo Meireles, Installations fino al 20 luglio 2014 HangarBicocca / via Chiese 2, Milano / Orario: giovedì – domenica 11.00 – 23.00 Ingresso libero

 

IL DESIGN AL TEMPO DELLA CRISI

Se il caldo impazza e si ha voglia di vedere qualcosa di alternativo e diverso dalle solite mostre, ecco che la Triennale di Milano offre tante valide opportunità. Ricco come sempre il ventaglio delle mostre temporanee di architettura, ma interessante ancor di più è il nuovo allestimento del TDM, il Triennale Design Museum, giunto alla sua settima edizione.

Dopo “La sindrome dell’influenza“, tema del’anno scorso, per la nuova versione ci si è concentrati su temi quanto mai cruciali, che hanno a che fare molto e soprattutto con gli ultimi anni: “Autarchia, austerità, autoproduzione” sono le parole chiave che fanno da titolo e da fondo all’edizione di quest’anno. Un racconto concentrato sul tema dell’autosufficienza produttiva, declinato e affrontato in modo diverso in tre periodi storici cruciali: gli anni trenta, gli anni settanta e gli anni zero. La crisi ai giorni nostri, insomma.

Sotto la direzione di Silvana Annichiarico, con la curatela scientifica di Beppe Finessi, l’idea alla base è che il progettare negli anni delle crisi economiche sia una condizione particolarmente favorevole allo stimolo della creatività progettuale: da sempre condizioni difficili stimolano l’ingegno, e se questo è vero nelle piccole cose, è evidente ancor di più parlando del design made in Italy.

Dal design negli anni trenta, in cui grandi progettisti hanno realizzato opere esemplari, ai distretti produttivi (nati negli anni settanta in piccole aree geografiche tra patrimoni basati su tradizioni locali e disponibilità diretta di materie prime) per arrivare alle sperimentali forme di produzione dal basso e di autoproduzione.

Viene delineata una storia alternativa del design italiano, fatta anche di episodi all’apparenza minori, attraverso una selezione di oltre 650 opere di autori fra cui Fortunato Depero, Bice Lazzari, Fausto Melotti, Carlo Mollino, Franco Albini, Gio Ponti, Antonia Campi, Renata Bonfanti, Salvatore Ferragamo, Piero Fornasetti, Bruno Munari, Alessandro Mendini, Gaetano Pesce, Ettore Sottsass, Enzo Mari, Andrea Branzi, Ugo La Pietra fino a Martino Gamper, Formafantasma, Nucleo, Lorenzo Damiani, Paolo Ulian, Massimiliano Adami.

Il percorso si sviluppa cronologicamente: si comincia con una stanza dedicata a Fortunato Depero, artista poliedrico e davvero a tutto tondo, e alla sua bottega Casa d’Arte a Rovereto (dove realizzava quadri e arazzi, mobili e arredamenti, giocattoli e abiti, manifesti pubblicitari e allestimenti) e termina con una stanza a cura di Denis Santachiara dedicata al design autoriale che si autoproduce con le nuove tecnologie.

In mezzo, un racconto fatto di corridoi, box e vetrine, che mette in scena i diversi protagonisti che, dagli anni trenta a oggi, hanno saputo sperimentare in modo libero creando nuovi linguaggi e nuove modalità di produrre. Uno fra tutti Enzo Mari con la sua semplice e disarmante autoprogettazione.

Il percorso si arricchisce anche di “momenti” dedicati ai diversi materiali, alle diverse aree regionali, alle varie tecniche o città che hanno dato vita a opere irripetibili, “quasi uniche”, come recitano i pannelli esplicativi.

Anche l’allestimento segue il concept di base: sono stati scelti infatti materiali che rievocano il lavoro artigianale e autoprodotto: il metallo e l’OSB (materiale composito di pezzi di legno di pioppo del Monferrato).

Dopo aver risposto alla domanda “Che Cosa è il Design Italiano?” con Le Sette Ossessioni del Design Italiano, Serie Fuori Serie, Quali cose siamo, Le fabbriche dei sogni, TDM5: grafica italiana e Design, La sindrome dell’influenza, arriviamo a scoprire come il design si salva al tempo della crisi.

Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione Triennale Design Museum, Orari: Martedi – Domenica 10.30 – 20.30 Giovedì 10.30 – 23.00 Biglietti: 8,00 euro intero, 6,50 euro ridotto

 

LEONARDO ICON

Leonardo Da Vinci ancora una volta protagonista di Milano. Si è inaugurata ieri sera la scultura intitolata “Leonardo Icon“, opera ispirata al genio di Leonardo e appositamente disegnata dall’architetto Daniel Libeskind per valorizzare la piazza Pio XI recentemente pedonalizzata. Leonardo continua quindi a dialogare, con un rapporto lungo decenni, con la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana che sorgono sulla piazza, scrigni d’arte contenenti tra l’altro il famoso Ritratto di Musico e l’importantissimo Codice Atlantico, a opera del maestro toscano.

Luogo e posizione centralissima per la scultura dell’archistar Libeskind, che oltre ad impreziosire la riqualificata piazza, ha “giocato” con Leonardo non solo per omaggiare il suo genio, ma anche sottolineandone il talento artistico, creando per la scultura un basamento circolare riproducente la mappa della città di Milano così come Leonardo stesso l’aveva descritta.

Un’operazione in linea con il programma di Expo 2015, che tenta di arricchire la città con opere e trasformazioni di ambito culturale a cui il grande pubblico può relazionarsi e magari farle diventare nuovi punti di riferimento urbano.

Leonardo Icon si presenta come un totem di quasi tre metri, fatto di leghe metalliche, che l’amministrazione comunale ritiene particolarmente significativo per il rilancio della piazza Pio XI.

“Quest’opera si trova all’interno di un simbolo della trasformazione della nostra città: due anni fa questa piazza era un parcheggio selvaggio ora è un gioiello pedonale che vogliamo sia conosciuto da sempre più milanesi e turisti”, ha dichiarato l’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran. “Per questo l’arrivo dell’opera di Libeskind è doppiamente importante, perché racconta la Pinacoteca e Leonardo ai milanesi in un nuovo contesto pedonale ancora tutto da scoprire. Oggi nasce una nuova stagione, la Pinacoteca riprende il suo giusto ruolo in città”.

 

MUNARI POLITECNICO

Il genio di Bruno Munari ha spaziato in diversi campi: dalla grafica all’editoria, dalla pedagogia al design, passando per l’arte più pura. La mostra “Munari politecnico“, allestita nello spazio mostre del Museo del ‘900, propone un percorso affascinante su alcune delle sperimentazioni/invenzioni progettate dall’artista.

I pezzi in mostra provengono tutti dalla Fondazione di Bruno Danese e Jacqueline Vodoz di Milano, che nella molteplice veste di amici, collezionisti, editori e industriali, per decenni hanno sostenuto e incentivato Munari a sperimentare linguaggi diversi. L’obiettivo della mostra è dunque rivelare la propensione artistica di Munari, compito che idealmente prosegue l’esposizione allestita nel 1996 nelle sale della Fondazione stessa, rileggendone però la collezione e aprendola a un dialogo con una generazione di artisti, presenti in mostra, che con Munari hanno avuto un rapporto dialettico.

La mostra è divisa in sezioni, attraverso le quali appaiono gli orientamenti artistici di Munari attraverso il disegno e il collage, con un modo di intendere l’arte vicino alle pratiche delle avanguardie storiche; ma dalle quali emerge anche il suo rapporto con la ricerca scientifica, come supporto di intuizioni plastiche e meccaniche; per arrivare poi alla produzione artistica vera e propria.

Soprattutto queste opere vivono di corrispondenze e influenze, citate da Munari nei suoi libri quali quelle di Mary Vieira e Victor Vasarely; ma in mostra ci sono anche pezzi di artisti che hanno esposto e condiviso ricerche con lui come Enzo Mari, Max Bill, Franco Grignani e Max Huber; e di artisti che lo hanno frequentato come Getulio Alviani e Marina Apollonio. Senza dimenticarsi di coloro che hanno condiviso momenti importanti del suo percorso, come Gillo Dorfles e Carlo Belloli, e successivamente il Gruppo T. Infine, questa stessa sezione include figure che con Munari hanno mantenuto un rapporto ideale in termini di capacità e ispirazione, come Giulio Paolini e Davide Mosconi.

Le opere degli artisti selezionati discutono, dialogano e si relazionano, oggi come allora, con l’immaginario estetico di Munari, anche grazie a un sistema di allestimento fatto di strutture e supporti legati tramite incastro e gravità, ma con aspetto leggero. Quella stessa leggerezza di cui Munari fece vivere le sue opere, tra cui le famose Sculture da viaggio, le 10 forchette “impossibili” e i libri illeggibili, tutti esposti in mostra.

Accanto alla mostra principale il Focus è dedicato all’opera fotografica, in parte inedita, realizzata da Ada Ardessi e Atto, autori che per decenni hanno lavorato a stretto contatto con Munari, testimoniando i principali momenti della vicenda professionale e umana dell’autore. L’esposizione ha come titolo “Chi s’è visto s’è visto” locuzione molto amata da Munari e che racchiude tramite immagini, l’artista e l’uomo a tutto tondo.

Munari politecnico fino al 7 settembre Museo del Novecento lun.14.30 – 19.30 mar. mer. ven. e dom. 9.30 – 19.30 gio. e sab. 9.30 – 22.30

 

BERNARDINO LUINI E FIGLI: UNA SAGA LUNGA UN SECOLO

Dopo un silenzio durato quasi cinquant’anni, Bernardino Luini torna protagonista di una mostra, e lo fa in grande stile. Il pittore di Dumenza, chiamato però da tutti “di Luino”, è il centro di una esposizione come da tempo non se ne vedevano, con 200 opere esposte per chiarire a tutto tondo una personalità significativa ma discussa, soprattutto per la mancanza di dati certi che caratterizza la biografia dell’artista.

Da giovedì 10 aprile sarà possibile scoprire Bernardino, i suoi figli e la sua bottega, le influenze illustri che lo ispirarono (Leonardo, Bramantino, i veneti, persino “un certo che” di Raffaello) e più in generale cosa succedeva a Milano e dintorni agli inizi del ‘500.

Quello sviluppato in mostra è un percorso ricco e vario, che oltre a moltissime opere del Luini, presenta anche il lavoro dei suoi contemporanei più famosi, Vincenzo Foppa, Bramantino, Lorenzo Lotto, Andrea Solario, Giovanni Francesco Caroto, Cesare da Sesto e molti altri, che spesso giocarono un ruolo chiave nel definire l’estetica artistica milanese.

Un percorso lungo quasi un secolo, che dalla prima opera di Bernardino, datata 1500, arriva a coprire anche le orme del figlio Aurelio, vero continuatore dell’attività di bottega, se pur già contaminato da quel Manierismo che stava dilagando nella penisola.

La mostra occuperà l’intero piano nobile di Palazzo Reale, e si concluderà in maniera scenografica nella sala delle Cariatidi, presentando, in alcuni casi per la prima volta, tavole, tele, affreschi staccati, arazzi, sculture, disegni e prove grafiche.

Oltre a prestiti milanesi, con opere provenienti da Brera, dall’Ambrosiana e dal Castello sforzesco, si affiancano importanti contributi internazionali provenienti dal Louvre e dal museo Jacquemart-André di Parigi, dall’Albertina di Vienna, dal Szépművészeti Múzeum di Budapest, dai musei di Houston e Washington.

Il progetto, curato da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, oltre a essere la più grande retrospettiva mai dedicata a uno dei protagonisti dell’arte del Cinquecento in Lombardia, è una saga famigliare in dodici sezioni, ognuna dedicata all’approfondimento di un momento della vita dei Luini e delle loro commissioni più importanti. Degni di nota sono gli straordinari affreschi per la Villa Pelucca di Gerolamo Rabia, mirabile ciclo decorativo tra sacro e profano; e la casa degli Atellani, con una rassegna di effigi dei duchi di Milano e delle loro consorti, ricostruita dall’architetto Piero Lissoni, responsabile dell’allestimento.

Dopo tante mostre dedicate ai contemporanei, la mostra è un tuffo in un’epoca che per Milano fu davvero d’oro, un momento in cui la città ma anche la stessa Lombardia, regalarono un apice artistico in seguito difficile da eguagliare.

Bernardino Luini e i suoi figli Palazzo Reale, fino al 13 luglio 2014 Orari: Lunedì 14.30_19.30 da Martedì a Domenica 9.30_19.30 Giovedì e Sabato 9.30_22.30 Biglietti Intero € 11,00 Ridotto € 9,50

 

KLIMT, BEETHOVEN E LA SECESSIONE VIENNESE

Gustav Klimt è il maestro indiscusso della Secessione viennese, movimento artistico sviluppatosi tra la fine dell’800 ed esauritosi alla fine degli anni ’10 in Austria e che dilagò anche in città come Monaco e Berlino. È uno degli artisti più amati, ammirati e idolatrati di sempre, benché il corpus delle sue opere sia relativamente esiguo, 250 lavori circa. Nulla a confronto della prolificità di artisti come Picasso, Warhol o Kandinsky, per citare solo alcuni degli artisti ospitati di recente a Palazzo Reale.

Ed è proprio qui che da mercoledì 12 marzo sarà possibile scoprire e ammirare anche i capolavori del maestro viennese. “Klimt. Alle origini di un mito” è l’ultima mostra promossa dal Comune di Milano e dal Sole24 Ore.

È bene dire fin da subito che non è una monografica su Klimt, ma piuttosto una panoramica su Klimt, sui fratelli Georg e Ernst e su alcuni degli artisti più significativi della Secessione. Di lavori puramente klimtiani ce ne sono una ventina. Piuttosto quella proposta da Palazzo Reale è una mostra, con un allestimento molto accattivante e suggestivo, con opere notevoli e lavori che faranno capire il senso di quella straordinaria rivoluzione artistica che va sotto il nome di Art Nouveau, Art Decò o, appunto, Secessione.

Il motivo è presto spiegato. I capolavori di Klimt non sono più assicurabili, spiega il curatore della mostra, Alfred Weidinger, che cura l’esposizione insieme a un’altra grande esperta klimtiana, Eva di Stefano. I premi assicurativi sono altissimi, le opere troppo significative perché i musei se ne possano separare con facilità. Retrospettive importanti a livello numerico sono ormai rarissime. Per gli amanti dei numeri basti ricordare che ‘Il ritratto di Adele Bloch Bauer’ fu acquistato nel 2006 da Ronald Lauder per 135 milioni di dollari, diventando uno tra i quadri più costosi di sempre.

Nonostante tutto le opere in mostra sono comunque tante, un centinaio, divise in sezioni. Si inizia con la sezione sulla famiglia Klimt, significativa perché mostra qualcosa di forse poco noto, l’origine della vocazione artistica del maestro. Il padre, orafo, passa ai tre figli maschi la passione e la pratica dell’arte, che i ragazzi portano avanti studiando presso la Kunstgewerbeschule (scuola d’arte e mestieri), dove si esercitano in pittura e in svariate tecniche, il tutto ancora seguendo uno stile storicista ed eclettico. Particolare attenzione è stata dedicata all’opera giovanile, alla formazione di Klimt e ai suoi inizi come decoratore dei monumentali edifici di rappresentanza lungo il nuovissimo Ring di Vienna.

La sezione successiva è dedicata alla Kunstler-Compagnie, la Compagnia degli Artisti che Klimt creò con i fratelli Ernst e Georg insieme a Matsch, e alla quale vennero affidate prestigiose commissioni ufficiali e onorificenze, riprendendo e portando avanti lo stile pomposo del loro maestro Hans Makart.

Ma il nuovo stava per arrivare. Abbandonato lo stile storicista Gustav Klimt e compagni, nel 1898, dopo lo scandalo causato con i dipinti per l’università di Vienna (bruciati in un incendio ma riproposti in mostra tramite incisioni) inaugurano la prima mostra della Secessione viennese, con la pubblicazione della rivista ufficiale, Ver Sacrum. È l’anno in cui l’architetto Otto Wagner crea il famoso Palazzo della Secessione, decorato internamente dagli stessi artisti.

È in questo ambito che nascono alcuni dei capolavori esposti, come la bellissima Giuditta II. Salomè, prestito della veneziana Ca’ Pesaro, Adamo ed Eva, Acqua Mossa, Fuochi fatui (una chicca di collezione privata difficilmente prestata in mostra) e altre opere preziose, ricche di decorazioni eleganti e sinuose, in cui il corpo femminile diventa protagonista. La donna prima madre poi femme fatale, intrigante e sensuale, portatrice di estasi e di tormento è il soggetto prediletto da Klimt.

Paesaggi (con l’incredibile Girasole) e ritratti sono altre sezioni della mostra, disseminate qua e là dagli straordinari disegni su carta. Opere che mostrano tutta l’abilità del grande maestro che con un solo tratto di matita riusciva a creare un languido corpo femminile.

Ma varrebbe il costo del biglietto anche solo la straordinaria ricostruzione del Fregio di Beethoven, a metà percorso, ispirato dalla nona sinfonia del musicista e creato per il Palazzo della Secessione di Vienna. Copia dell’originale, irremovibile e danneggiato, realizzata durante il complesso lavoro di restauro compiuto negli anni ’70-80, è stato ricostruito così come Klimt l’aveva allestito nel 1902, con 7 pannelli di 2 metri di altezza per 24 di lunghezza.

Tributo a un musicista considerato leggendario dagli artisti viennesi, il Fregio rappresentata l’eterna contrapposizione tra il bene e il male, il viaggio dell’uomo – cavaliere e l’aspirazione al riscatto e alla salvezza possibili solo attraverso l’arte, rappresentata dalla donna; un’opera forte di quel messaggio allegorico sempre presente nelle opere di Klimt. Maestro indiscusso di eleganza e raffinatezza.

Klimt. Alle origini di un mito Palazzo Reale, fino al 13 luglio Aperture e costi: Lunedì dalle ore 14:30 alle ore 19:30, da martedì a domenica dalle ore 9:30 alle ore 19:30, giovedì e sabato orario prolungato fino alle ore 22:30 Biglietto intero 11 euro, ridotto 9,50.

 

PERCHÈ IL MUSEO DEL DUOMO È UN GRANDE MUSEO

Inaugurato nel 1953 e chiuso per restauri nel 2005, lunedì 4 novembre, festa di San Carlo, ha riaperto le sue porte e le sue collezioni il Grande Museo del Duomo. Ospitato negli spazi di Palazzo Reale, proprio sotto il primo porticato, il Museo del Duomo si presenta con numeri e cifre di tutto rispetto. Duemila metri quadri di spazi espostivi, ventisette sale e tredici aree tematiche per mostrare al pubblico una storia fatta d’arte, di fede e di persone, dal quattordicesimo secolo a oggi.

Perché riaprire proprio ora? Nel 2015 Milano ospiterà l’Expo, diventando punto di attrazione mondiale per il futuro, così come, in passato, Milano è stata anche legata a doppio filo a quell’editto di Costantino che quest’anno celebra il suo 1700esimo anniversario, con celebrazioni e convegni. Non a caso la Veneranda Fabbrica ha scelto di inserirsi in questa felice congiuntura temporale, significativa per la città, dopo otto anni di restauri e un investimento da 12 milioni di euro.

Il Museo è un piccolo gioiello, per la qualità delle opere esposte così come per la scelta espositiva. L’architetto Guido Canalico lo ha concepito come polo aperto verso quella varietà di generi e linguaggi in cui è riassunta la vera anima del Duomo: oltre duecento sculture, più di settecento modelli in gesso, pitture, vetrate, oreficerie, arazzi e modelli architettonici che spaziano dal XV secolo alla contemporaneità.

E l’allestimento colpisce e coinvolge già dalle prime sale. Ci si trova circondati, spiati e osservati da statue di santi e cherubini, da apostoli, da monumentali gargoyles – doccioni, tutti appesi a diversi livelli attraverso un sistema di sostegni metallici e di attaccaglie a vista, di mensole e supporti metallici che fanno sentire l’osservatore piccolo ma allo stesso tempo prossimo all’opera, permettendo una visione altrimenti impossibile di ciò che è stato sul “tetto” del Duomo per tanti secoli.

Si è poi conquistati dalla bellezza di opere come il Crocifisso di Ariberto e il calice in avorio di san Carlo; si possono vedere a pochi centimetri di distanze le meravigliose guglie in marmo di Candoglia, e una sala altamente scenografica espone le vetrate del ‘400 e ‘500, alcune su disegno dell’Arcimboldo, sopraffini esempi di grazia e potenza espressiva su vetro.

C’è anche il Cerano con uno dei “Quadroni” dedicati a San Carlo, compagno di quelli più famosi esposti in Duomo; c’è un Tintoretto ritrovato in fortunate circostanze, durante la Seconda Guerra mondiale, nella sagrestia del Duomo. Attraverso un percorso obbligato fatto di nicchie, aperture improvvise e sculture che sembrano indicare la via, passando per aperture ad arco su pareti in mattoni a vista, si potrà gustare il Paliotto di San Carlo, pregevole paramento liturgico del 1610; gli Arazzi Gongaza di manifattura fiamminga; la galleria di Camposanto, con bozzetti e sculture in terracotta; per arrivare fino alla struttura portante della Madonnina, che più che un congegno in ferro del 1700, sembra un’opera d’arte contemporanea. E al contemporaneo si arriva davvero in chiusura, con le porte bronzee di Lucio Fontana e del Minguzzi, di cui sono esposte fusioni e prove in bronzo di grande impatto emotivo.

Il Duomo è da sempre il cuore della città. Questo rinnovato, ampliato, ricchissimo museo non potrà che andare a raccontare ancora meglio una storia cittadina e di arte che ebbe inizio nel 1386 con la posa della prima pietra sotto la famiglia Visconti, e che continua ancora oggi in quel gran cantiere, sempre bisognoso di restauro, che è il Duomo stesso.

Museo del Duomo Palazzo Reale piazza Duomo, 12 – biglietti: intero 6 euro, ridotto 4 euro orari: martedì – domenica: 10.00 -18.00.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

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