9 luglio 2014

musica – MONICA E CLARA


 

MONICA E CLARA

Lunedì sera la Milanesiana sembrava offrirci – come un miraggio – un concerto dal vivo di Clara Schumann in memoria di Robert; Claretta o Chiarina, come la chiamava quel marito perdutamente innamorato di lei, era di quasi 10 anni più giovane di lui, ne aveva 21 quando riuscì finalmente a sposarlo, poco più di 30 quando fu costretta a fare i conti con il declino della sua mente, 37 infine quando Robert, dopo un tentativo di suicidio e due anni di ospedale psichiatrico, la lasciò vedova; Clara visse altri quarant’anni dividendosi fra il ricordo di Robert e l’affetto di Brahms.

musica26FBClara Schumann – che fu grandissima pianista a prescindere dai due geni che l’hanno amata – sembrava reincarnata l’altra sera in un’altra grandissima pianista, nella bella figura femminile di Monica Leone che interpretava con lo stesso amore di lei due famose opere del “suo” Robert: le Variazioni ABEGG opera 1 del 1830 e Arabesque opera 18 del 1839. Di Monica Leone qualche lettore ricorderà l’incantamento che raccontai quando, l’anno scorso, eseguì le Variazioni Goldberg per PianoCity; e in questa sorta di immedesimazione di Monica in Clara (due vite interamente dedicate alla musica e al loro compagno musicista), ho trovato sorprendente che la prima abbia potuto raggiungere risultati di qualità altrettanto elevata sia in Bach che in Schumann; se è facile immaginare che un pianista eccella in un autore, in un genere, in un’epoca, molto più difficile credere che possa farsi profondo interprete di mondi tanto diversi. Ma Bach e Schumann sono nati a pochi chilometri uno dall’altro e vissero entrambi a lungo a Lipsia, anche se a più di un secolo di distanza uno dall’altro. Significherà qualcosa?

Peraltro è difficile pensare e raccontare queste storie senza inquadrarle fisicamente nell’ambiente della Turingia e della Sassonia (ancora venticinque anni fa era “Germania Orientale”) che, a dispetto di nomi vagamente duri e severi, sono dolcissimi paesi dalle colline verdi e dai meravigliosi cieli continentali. È un quadrilatero le cui diagonali misurano poco più e poco meno di 200 km, in cui si trovano Eisenach, Erfurt, Weimar, Zwickau, Lipsia, Dresda e, a poche ore di carrozza a cavalli, Praga, Karlsbad (o Karlovy Vary), Bayreuth, Bamberg, Francoforte e sono le terre che per più di duecento anni sono state il vero crogiuolo della musica occidentale: Bach nasce nel 1685 ad Eisenach, Clara Wieck Schumann muore nel 1896 a Francoforte, ma in quei duecento anni chi dei grandi musicisti e letterati non è andato regolarmente a Weimar a visitare Goethe, e a Lipsia dove Mendelssohn aveva creato la Gewandhaus?

Veniamo al programma di lunedì sera, ricco di allusioni, rimandi, giochi di specchi.

Le Variazioni (il tema è composto dalle note “la, si bemolle, mi, sol, sol” e cioè ABEGG secondo la nomenclatura anglosassone) sono il risultato di una sorta di bravata: Schumann aveva vent’anni e durante un viaggio a Mannheim gli capita di fare un giro di valzer con una giovane pianista di nome Meta Abegg; torna a Zwickau e, lasciando intendere di essere un grande sciupafemmine, scrive questo pezzo e lo dedica a una immaginaria “Contessina Pauline von Abegg”. Per fortuna il ventenne sapeva già scrivere musica in modo delizioso e queste Variazioni sono una vera chicca.

Altra chicca è Arabesque, o meglio Arabeske come nell’originale, di nove anni più tardi, quando Schumann si trovava a Vienna per cercare di affermarsi come critico musicale e così convincere il suo maestro di pianoforte Friedrich Wieck a concedergli la mano della figlia Clara; ebbe scarsissimi risultati, sia sul piano professionale che personale, tuttavia un anno dopo, sia pur attraversando mille difficoltà, riuscirà a sposare l’amata mentre la sua rivista “Neue Zeitschrift für Musik” avrà ugualmente, ma altrove, grande successo. Arabesque è un pezzo che Schumann vuole “leggero e tenero” (leicht und zart) ed è dedicato a una tale Majorin Friederike Serre di Maxen che probabilmente doveva introdurlo nell’odioso ambiente viennese (dominato da quei “filistei” contro cui tuonerà per anni dalla sua rivista, quasi anticipando Hans Fazzari!), ma ha invece tutte le stigmate dell’innamoramento per Clara che lo eseguì con successo durante tutta la sua lunga carriera di concertista. E Monica, vincendo la tremenda difficoltà di suonare al fianco di un rumorosissimo impianto di condizionamento (al Politecnico, nel regno delle tecnologie …), lo ha suonato con identico amore e dedizione, con leggerezza e precisione, con l’intima forza dell’affetto.

Curioso anche ciò che è successo dopo, nella seconda parte del concerto. Monica Leone lascia i panni di Clara ed esegue due pezzi celeberrimi di Liszt, “Venezia e Napoli”, supplemento al secondo quaderno delle “Années de Pèlerinage” – la cui prima versione è del 1838, dunque coeva di Arabesque – che abbiamo sentito tante volte eseguite dal suo celebre marito Michele Campanella. Una circostanza inquietante alla luce di quella immedesimazione: Clara e Roberto nella prima parte, Monica e Michele nella seconda. E un altro gesto d’amore, quello di Liszt per l’Italia. Di più, a sorpresa, quando il concerto sembra giunto alla fine, dopo gli interminabili applausi alla romantica dominatrice assoluta della serata, non previsto dal programma compare Campanella in persona, che si siede al pianoforte a fianco della moglie e si tuffa con lei in un capolavoro della “classicità” viennese come il Grand Rondeau in la maggiore, ultima opera scritta per pianoforte a quattro mani da Schubert nel 1828, dunque quasi coeva al primo Schumann e tuttavia appartenente a un mondo diverso, ancora beethoveniano.

La scommessa della Milanesiana – quella di fondere poesia, filosofia, arte, musica intorno a una categoria dello spirito (lunedì era il destino) – ha avuto un senso anche nel racconto con cui Vittorio Gregotti, introducendo la serata senza paludamenti, ha svelato il suo amore per l’architettura e la città, e descritto il lungo percorso professionale fra i maestri che ha amato e quelli da cui è stato amato. Architettura come musica, l’apprendimento attraverso la partecipazione emotiva, l’arte non per se stessi ma per gli altri.

Una atmosfera magica, un po’ surreale e intrisa di bellezza, di umanità, di affetti, che ha avuto il suo culmine nel gioco di rinvii fra Monica Leoni e Clara Wieck; Monica, con la dolcezza e la sicurezza della grande professionista, non suonava né per sé stessa né genericamente per il pubblico, ma “per qualcuno”, “per amore”, in un intreccio di sentimenti assolutamente particolare. E il pubblico se ne è visibilmente commosso.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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