2 luglio 2014

LA BAD GODESBERG DI RENZI: VERSO IL PARTITO NAZIONE?


A Bad Godesberg, nel 1959, l’SPD tedesca fece i conti finali con i suoi antichi padri fondatori (Marx, Engels, il “rinnegato” Kautsky …), tolse il sol dell’avvenire dalle sue bandiere e declinò il modo di produzione capitalista come “società di mercato”. Fu un gran lavoro teorico e simbolico, cui l’SPD si applicò con metodo germanico: il risultato fu il Patto Socialdemocratico, un compromesso decisamente alto nella sua concezione, fondato su modelli di cogestione della produzione e del sociale. Così, l’SPD si istituiva nella duplice veste di rappresentante dei lavoratori e garante degli assetti socio politici nazionali.

06ucciero25FBPer altre vie, più tortuose, il PCI proseguiva la sua revisione, espungendo le analisi e le parole d’ordine meno gestibili nel quadro del compromesso socialdemocratico. Il ’68, sola vera grande rivoluzione culturale dell’Occidente, fu riassorbito della sua politica prudente, un po’ tartufesca, ma certamente efficace. In realtà, i problemi di fondo erano solo stati accantonati.

La Bolognina, le lacrime di Occhetto, segnarono momenti di autentico dolore personale e collettivo, simbolo del trauma vissuto da un personale politico e da un popolo ancora sentimentalmente legati al mito rivoluzionario. Se per l’SPD, Bad Godesberg fu semplicemente la presa d’atto di un amore finito tanto tempo prima, per il PCI si trattò di un triste e progressivo distacco da un amore impossibile. Da allora, tanta confusione, la Cosa, DS, PDS, e infine il PD.

In Italia niente Bad Godesberg, ma piuttosto un susseguirsi di passaggi, strattoni, tentativi, alla fine sfociati nel PD. Ci si sarebbe attesi una sistematica rielaborazione dell’analisi, della proposta, dell’identità, ma era troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi perché la tradizione comunista riuscisse a superare alcune tare originarie, troppo presto perché il tentativo di sintesi tra le diverse culture andasse oltre il sincretismo volenteroso ma impotente del “ma anche” veltroniano.

Il PD come partito socialdemocratico non è mai nato e al suo posto è cresciuta la metastasi di un pluralismo oligarchico, tanto anarchico nei litigi tra feudatari quanto opprimente verso iscritti e popolo. Non poteva andare avanti così, e così non è andata avanti.

Ma la devastante crisi italiana alla fine ha generato una rottura, in un certo senso la nostra Bad Godesberg, naturalmente una Bad Godesberg confusa e raffazzonata, all’italiana, nella forma del plebiscito e non del congresso, dell’emozione e non del ragionamento, del proclama e non della tesi, che procede senza ancora aprire la nuova galleria degli antenati, ma è solo questione di tempo: Bettino attende, che già sorride.

Di cosa parliamo? Ma naturalmente dell’8 dicembre 2013, spartiacque tra un’epoca della politica italiana e un’altra. L’8 dicembre crollarono, con gli stanchi epigoni, le ideologie storiche del centrosinistra fondatrici del PD, quella cattolica e quella comunista, accomunate da visioni organiche e da missioni di rappresentanza sociale. Come sempre il Palazzo è preso quando è ormai vuoto, fuggiti i difensori: il dopo elezioni 2013 è stato un martirio, e ha creato le premesse per un cambiamento radicale, non importa neppure quale, al punto in cui si era arrivati.

Ma in cosa consiste effettivamente questa nostra Bad Godesberg, non dichiarata ma in corso d’opera? Nel superamento della visione di società e futuro basata sulla lotta tra aggregati sociali, per lasciare spazio a un nuovo contesto dove competono i singoli (individuo, impresa, territorio) e dove accelerazione tecnologica e maggior libertà d’impresa ridefiniscono il terreno ideale (la competizione) per assegnare i giusti meriti, favorendo ricchezza e sviluppo, e per questa strada anche risorse per i bisogni dei perdenti.

Da una parte gli innovatori, dall’altra i conservatori, tutti immersi nel grande oceano della trasformazione. I conservatori, definiti tali quando rivendicano le identità sociali collettive come risorse essenziali per conseguire l’eguaglianza tra i singoli, quando pretendono di porsi tra il sociale e il pubblico, rappresentando e intermediando. Di qui il furore iconoclasta contro province e prefetture, sindacati e rappresentanze imprenditoriali, di qui la negazione del loro valore aggiunto organizzativo, anzi l’apposizione delle stimmate di “mangiaufo a tradimento”. Di qui la ricerca del consenso lungo tutto lo spettro sociale, senza più riconoscere alle identità sociali e alle infrastrutture tecniche alcun valore intrinseco, anzi, ma stimolando e accogliendo “inclusivamente” tutti quanti siano disponibili a partecipare al gioco, dovunque si collochino.

Che non si tratti di una forzatura viene chiaro quando si ascolta Matteo Renzi affermare, commentando diaspora e velocissimo convergere sul pianeta PD dei satelliti rottamati di SEL, “Chi guarda al PD troverà un partito aperto (…) che si pensa come un vero e proprio partito della nazione”. Un Partito della Nazione!!!!

Un partito che non si pensa come rappresentante di una “parte” sociale, ma ambisce a essere titolare di un “tutto” trasversale e indifferenziato, totalizzante più che maggioritario, il partito degli atomi sociali liberati della mano morta dei corpi intermedi, depositari parassiti di un mondo tramontato. E d’altra parte, se il valore guida non è “eguaglianza” ma “cambiamento”, se non vi è differenza sostanziale tra lavoratore e gestore di fondi finanziari, tra operaio FIAT e Sergio Marchionne, tra evasori e proletari digitali, allora non vi è alcuna ragione per non ambire a rappresentare tutti, ma proprio tutti. Cosa resti qui di Gramsci e della sua nozione di egemonia (le casematte del consenso …) è facile comprendere, e cosa dell’eguaglianza pure, del resto derubricata a minor fattore dallo stesso Renzi, commentando Bobbio su “Destra e sinistra“.

Che prospettive effettive può nutrire questo disegno politico, nuovo eppure autentico erede del PSI d’antan? E quale ruolo può realisticamente desiderare una sinistra che non svenda la sua primogenitura per un piatto di lenticchie?

Il successo elettorale di Matteo Renzi, è stato conseguito in forza di due essenziali precondizioni: l’assenza di leadership a destra, le aspettative dei ceti sganciatisi dal signor B. Sono compatibili queste aspettative con quelle del popolo di centrosinistra? Fin che si tratta di far fuori Province e Senato, tutto va ben madama la marchesa, ma quando si inciderà sulla carne viva degli interessi sociali, qualche problema verrà. Reggerà allora il Partito della Nazione?

A sinistra, la stagione dell’egemonia da rendita di posizione è finita, e bisogna ripensarsi (dentro e fuori il PD). Se Eguaglianza, Lavoro e Diritti sono ancora valori di riferimento, come rileggerli nel vivo dei processi attuali, verso la potente domanda di soggettività che esprimono, rielaborando rappresentanza tradizionale e sfera di partecipazione?

Se la terza via alla Blair e alla Renzi è una strada senza uscita, non si vede ancora il percorso alternativo. È ancora buio. È un enorme spazio politico e culturale: a ciascuno la sua Bad Godesberg.

 

Giuseppe Ucciero



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