2 luglio 2014

ANTONIO VELLUTO: IL PENSIERO POSITIVO


Si dice spesso di una persona che “pensa positivo”, ed io lo dicevo soprattutto di lui, mi sembrava l’archetipo del “pensare positivo”; ma non era solo lui a pensare positivo, diffondeva intorno a sé – nella sua grande famiglia (una vera tribù, molto articolata), nel lavoro (i giornalisti vivono tra la gente), con gli amici (era un meridionale verace, con una grande capacità di coltivare l’amicizia) – una positività consapevole, razionale, nulla a che fare con l’ottimismo della volontà, piuttosto con la fiducia nella ragione. Era il vero pensiero positivo.

07viola25FBAntonio Velluto è mancato martedì scorso, nella sua bella casa di via della Moscova, malato terminale di molti mali sopportati con lo spirito e la pazienza di un moderno Giobbe; non l’ho mai visto senza quel sorriso dolce, avvolgente, comprensivo, solare come suggeriva il verde azzurro degli occhi. Sosteneva che quando sarebbe arrivato il momento, l’unica cosa importante era essere preparati e nel limite del possibile avere la coscienza a posto.

Lo conobbi nel 1952, da pochi mesi era approdato a Milano con pochi centesimi in tasca, portando con sé uno dei fratelli più giovani per esplorare la possibilità di una vita più “larga” rispetto a quella che aveva davanti nella piccola, deliziosa, amatissima Troia, sulle colline di Foggia, di fronte al Gargano. Troia stava troppo “stretta” a una famiglia come la sua, tanto serena nell’accettare le ristrettezze postbelliche quanto ambiziosa per chiedere orizzonti più ampi sul piano sociale e culturale.

Erano stati “raccomandati” a Padre Zucca (ricordate il trafugatore del corpo di Mussolini?) padre padrone dell’Angelicum (la sala di piazza Sant’Angelo in cui ogni lunedì sera si ascoltava una buona orchestra sinfonica – con essa debuttò il giovane Claudio Abbado – e gli altri giorni si proiettavano film in lingua originale) che per dare un lavoro ai due ragazzi – quindici e diciassette anni – mise loro addosso due improbabili smoking e li promosse “maschere” del teatro. Dormivano e mangiavano come e quando potevano ma la sera, nelle loro divise, erano impeccabili; l’ambiente d’altronde era colto, la naturale affabilità li rese familiari ai professori d’orchestra, ai francescani più “intellettuali”, ai giornalisti, ai “borghesi” come me che frequentavano la sala. Lì imparammo ad amare la musica, allora Antonio divenne un mozartiano di ferro.

Così è nata una carriera da autentico “milanese”, con le stimmate dell’immigrato-integrato che non ha mai reciso i legami con le proprie origini (ancora oggi la casa di Troia è frequentata da tutta la sua famiglia), che secondo la migliore tradizione è stato raggiunto dal resto della famiglia, sono nati figli e nipoti, mentre lui, perfetto patriarca, seguiva, consigliava, appoggiava tutti. Come sempre, dietro una grande carriera vi è una grande donna, e Antonio l’ha trovata presto e non se l’è più persa.

È stato giornalista a “La Notte” di Nino Nutrizio, ha diretto per anni Il Gazzettino Padano alla RAI, è diventato Consigliere Comunale (era un vero “democristiano di sinistra”, molto distante dai “cattocomunisti”, cresciuto nella scuderia di Marcora; per lui la politica era un servizio civile, nulla di più) poi Assessore all’Edilizia Pubblica (contestato perché voleva integrare i quartieri popolari con quelli borghesi, vi ricordate la città tappezzata di manifesti “Velluto pensaci!” e “Velluto resisti”?). Chiusa la carriera propriamente politica per incompatibilità con i valori (o disvalori) emergenti, è stato al vertice delle Associazione e dei Sindacati dei Giornalisti, prima Italiani poi Europei, ha diretto il Circolo della Stampa di Milano, è stato insignito di cavalierati e di onorificenze di ogni genere, compreso l’Ambrogino d’oro; ma l’onorificenza più importante l’ha avuta martedì, nella chiesa di San Marco gremita, dalle parole della moglie, di un fratello, di una figlia, scolpite nella pietra.

Ho raccontato questa storia perché, pur appartenendo alla nostra generazione, è diversa da quelle che arrivano oggi alle nostre orecchie: i media non le raccontano perché non fanno clamore, si dubita che suscitino un minimo di audience; la raccontiamo qui perché qualcuno si accorga che la città non dimentica gli uomini migliori, non è fatta dei violenti e dei corrotti che invadono la cronaca.

Si dice che l’ascensore sociale sia bloccato, che non funzioni più. Forse siamo noi a non saperlo usare. Abbiamo perso quel pensiero positivo che fino a ieri assicurava speranza e fiducia nel futuro alle persone, alle famiglie, alla comunità. Sicuramente oggi è più difficile “fare”, si sono inceppati tanti meccanismi che aiutavano a vivere e a lavorare, ma si è anche smarrita – o è stato marginalizzata – la capacità di ascoltare, capire, aiutare, sostenere, la volontà di “partecipare”. Antonio Velluto, se potesse ricominciare oggi, ce la farebbe ancora perché la sua forza morale si riverberava su tutti quelli che incontrava, umili o potenti che fossero. Sarà un caso che al funerale ci fosse il caro, vecchio sindaco Tognoli, ma non il gonfalone del Comune.

Paolo Viola



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