25 giugno 2014

LA SOCIETÀ DEI 2/3: VERSO UNA SOCIETÀ DELLA CURA


Nella società di ieri, anni 1940/50, si viveva fino a 60 anni e già dalla nascita c’era una forte selezione, altra selezione era data dalla disponibilità economica con la relativa possibilità di frequentare la scuola rendendo possibile la salita dei gradini della scala sociale. Nascevi in una famiglia di operai, morivi operaio. In quella società più dei 2/3 degli italiani rappresentavano l’area debole in termini economici e dei bisogni primari. Le lotte, sia politiche che sindacali, degli anni 1960/70 ottennero importanti conquiste sociali: dal diritto alla salute, a un lavoro dignitoso, a una assistenza sociale più allargata, al diritto allo studio e a una certa ridistribuzione dei redditi.

09agnesi24FBGrazie a queste conquiste i bambini hanno superato i rischi di patologie neonatali, gli anziani vivono più a lungo, le malattie sono più facilmente superabili per via degli investimenti sulla salute, i beni sono stati redistribuiti più equamente permettendo alle famiglie di costruirsi impegnativi progetti di vita. Nel giro di circa due decenni quelle conquiste hanno portato la maggioranza degli italiani oltre la soglia del bisogno e dentro l’area delle tutele, pertanto la situazione precedente dei 2/3 si è capovolta, prima l’1/3 era rappresentato dai ceti più benestanti ora è rappresentato dagli italiani emarginati, poveri e senza tutele verso i quali si sono sviluppate per anni le politiche di assistenziali.

Per anni ci siamo illusi dell’infinita possibilità di sviluppo industriale, con una forzata e drogata promozione della società dei consumi, impreparati a tutti i livelli sociali, politici ed economici ad affrontare la globalizzazione, con una disastrosa supremazia della finanza indirizzata alla pura speculazione. E come se non bastasse c’è una cultura liberista e individualistica dove ogni persona si sente autosufficiente, che compete contro tutti, che non chiede e non dà. In questi ultimi anni di fronte a questa grave situazione di crisi globale e individuale, ogni certezza, ogni progetto, ogni sicurezza e protezione viene messa in dubbio. Viviamo in effetti in una società che, per la gran parte delle persone che la compone esprime sentimenti di incertezza, vulnerabilità e fragilità.

Attualmente è possibile passare dall’area protetta all’area della marginalità in pochi anni o pochi mesi, basta una malattia grave e invalidante, un cambio di lavoro se non la perdita del posto di lavoro, la fragilità nella coppia con una separazione, ecc.. Un esempio illuminante è quello dell’anziano il cui senso di vulnerabilità è dato dalla scarsa autonomia, non sempre segnata da un bisogno economico, questa persona richiede un notevole sforzo relazionale per liberarlo dalla sua ansietà. Nello stato di fragilità momentanea in cui una persona o una famiglia si può trovare, siamo di fronte a un bisogno, ma il più delle volte in presenza ancora di risorse e di capacità di ripresa, pertanto in questi casi si tratta di costruire strategie evolutive e di accompagnamento.

Molte volte non si tratta di rispondere a un bisogno economico di assistenza, bensì di non lasciare le persone sole, perché il cittadino vulnerabile si sente sempre più solo e se abbandonato scivola lentamente verso l’emarginazione, la povertà totale e la solitudine più distruttiva. È questa l’area nebulosa verso la quale lo Stato Sociale deve saper organizzare una forte rete di relazioni umane, capace di sostenere quanti sono indeboliti dal senso di vulnerabilità e precarietà.

“Milano la capitale dei single” titolava un articolo giornalistico alcuni mesi fa, dove i single rappresentano ormai più del 52% dei nuclei presenti in città. Una città sempre più composita in cui le madri e i padri soli con figli sono circa 72.000 e 100.000 gli ultrasessantenni soli, con la presenza di 95.000 ultraottantenni i cosiddetti “grandi anziani”. Cifre che trasudano fatiche, sacrifici, delusioni e solitudini, seguiti da un incremento esponenziale dell’uso di psicofarmaci, con prospettive sempre più impegnative di interventi non solo economici e di una cura tecnica, ma innanzitutto di rapporti sociali. Si deve passare da una società dei diritti a una società della cura alla persona nella sua globalità, dove la componente relazionale diviene la cura più efficacie contro la solitudine e il senso di abbandono. Condivido pienamente il pensiero di Sandro Antoniazzi, presidente della “Fondazione S. Carlo” e membro della Commissione “Iustitia e Pax” della Diocesi di Milano, quando afferma; “Il welfare non può più essere solo l’intervento pubblico verso il singolo, deve essere anche l’occasione di realizzare relazioni sociali che contengono già una parte della risposta al bisogno.”

 

Giovanni Agnesi



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