18 giugno 2014

musica – FINE DI STAGIONE


FINE DI STAGIONE

In questi giorni abbiamo gli ultimi concerti di chiusura delle stagioni milanesi, e sono tre le occasioni più interessanti: il 20 chiude la stagione del Quartetto con le tre ultime Sonate per pianoforte di Beethoven, le opere numero 109, 110 e 111, eseguite da Krystian Zimerman, che abbiamo poche settimane fa ascoltato nella interpretazione di Andras Schiff e sarà dunque interessante il confronto fra i due giganti; il 26 chiude la stagione della Filarmonica con un concerto straordinario di Daniel Barenboim che eseguirà il Concerto K.595 per pianoforte e orchestra di Mozart e la Sinfonia numero 5 di Čajkowskij. Fine. Per fortuna subito dopo si inaugura la stagione estiva dell’Auditorium che ha tutta l’aria di essere molto interessante.

musica23FBDel concerto di fine stagione dell’Orchestra Verdi, che si è tenuto all’Auditorium domenica scorsa, non posso tacere la curiosa contraddittorietà; si è eseguita la Sinfonia n. 5 in mi minore opera 64 di Čajkowskij – che ascolteremo alla Scala fra pochi giorni e sarà gustoso metterle a confronto – affiancata anche in questo caso ad un concerto per pianoforte e orchestra, ma di Beethoven, e precisamente al Concerto numero 5 in mi bemolle maggiore opera 73, detto l’Imperatore: l’Orchestra era diretta da Jader Bignamini e al pianoforte sedeva Davide Cabassi.

Mai mi era capitato di sentire, all’interno dello stesso concerto, due capolavori assoluti come questi eseguiti uno in modo magnifico e l’altro pessimo; tanto è stata assorbente, penetrante, incisiva, commovente, la Sinfonia russa, quanto povero, scialbo e modesto il grande Concerto beethoveniano.

Jader Bignamini si è rivelato ancora una volta un direttore grandemente dotato quando, liberatosi dall’obbligo della “concertazione” con il pianista, ha affrontato la Quinta di Čajkowskij in piena libertà; nel gennaio del 2012 scrivevo di essa, in questa rubrica, che “è una delle opere più tragiche, pessimiste, piene di pulsioni autodistruttive che siano mai state concepite da mente umana, nata in un contesto di depressione e di vocazione al suicidio da parte di chi si autodefiniva un ‹artista a disagio nel mondo›“. Di quest’opera, in cui Čajkowskij anticipa Šostakovi?, Bignamini ha saputo esprimere non solo la tragicità propria dell’Autore, che morirà suicida cinque anni dopo per non aver saputo o potuto gestire serenamente la propria ambigua sessualità, ma anche la potenza e la grandiosità con cui la musica russa evoca gli spazi infiniti e la millenaria storia delle afflizioni di chi li abita, potenza e grandiosità che solo i musicisti russi normalmente riescono a rappresentare.

L’esecuzione è stata accolta da un tale trionfo che l’orchestra ha dovuto replicare il finale dell’opera, evento abbastanza raro persino all’Auditorium che come si sa gode di un pubblico affettuosamente legato alla “sua” orchestra, fedele, facilmente entusiasmabile.

È risultato dunque incomprensibile come, nella prima parte del concerto, abbia potuto rivelarsi così scialbo e inconsistente proprio quel Concerto n. 5 che è una delle opere più possenti e vigorose della produzione beethoveniana. Si percepiva una sostanziale difficoltà di dialogo e di intesa fra pianista e direttore, il loro diverso sentire, i contrastanti approcci. Per esempio se da una parte abbiamo ascoltato un bell’inizio del secondo tempo, le cui prime misure sono per sola orchestra, dall’altra i ritornelli del Rondò, laddove lo stesso tema viene più volte rimbalzato dall’orchestra al pianoforte e viceversa, si percepivano fastidiosamente due diverse interpretazioni, due diversi fraseggi. La conclusione è stata un’esecuzione scolastica, per nulla convincente, una lettura sostanzialmente noiosa e insignificante.

Una curiosa riprova della diversità di approccio fra i due protagonisti la si è avuta quando Cabassi, richiesto di un bis, ha offerto un Für Elise in versione estremamente lenta e sommessa, quasi una ninna nanna, che aveva qualcosa dell’intimismo di Debussy, molto lontano dal temperamento di Bignamini (ma – ed è ben più grave – anche dall’universo beethoveniano).

C’è molto da imparare da concerti come questi; per esempio l’impotenza del direttore d’orchestra quando ha a che fare con un solista “diverso”, non “consonante”. O come sia difficile “suonare insieme”, entusiasmante quando ci si riesce, deludente in caso contrario. Ma anche come sia pericoloso affiancare due capolavori così densi di significati e ricchi di valori, per giunta arcinoti, se non si è poi in grado di “tenerli insieme”, di portarli allo stesso livello di eccellenza. Può accadere, come in questo caso, che uno finisca per ammazzare l’altro.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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