11 giugno 2014

LEGIFERARE IN ITALIA: UN DEFICIT DI DEMOCRAZIA


L’idea che la fonte primaria del diritto sia la legge generale e astratta è una conquista della modernità giuridica d’ispirazione illuministica. Cesare Beccaria ne è il simbolo più noto nel campo penale. In quello civile, basta citare il codice napoleonico, modello diffuso in molti paesi del mondo. Persino in Inghilterra, orgogliosa del suo common law basato su consuetudine e precedenti, Jeremy Bentham diffuse fiducia nella legislazione. Negli Stati Uniti, i giuristi avvertono che il loro diritto è molto più statute e meno common di quanto si pensi in Europa.

03ferrari22FBGli illuministi pensavano che la legislazione fosse lo strumento più adatto a garantire il massimo di certezza del diritto e un buon livello di calcolabilità dei rischi, soprattutto economici. E in questo senso si può dire che essa abbia funzionato, smentendo le critiche di chi ammoniva che una legge, soprattutto un codice, cristallizza nel presente una realtà destinata presto a cambiare nel futuro. Certo, nella società mercantile ha funzionato meglio del diritto tardo-medioevale, col suo complicato intreccio di fonti, opinioni, precedenti e usi, denunciato nelle prime famose parole di Dei delitti e delle pene.

Il problema però sono i tempi del mutamento sociale rispetto a quelli della decisione legislativa. Se fino alla metà del Novecento erano abbastanza compatibili, negli ultimi decenni si è aperto tra i due fronti un grave squilibrio, che ha prodotto una profonda crisi nella legislazione. Crisi che, per paradosso, non si è tradotta in una diminuzione dell’attività legislativa, ma nella sua perversione.

Anziché ridursi, il volume della legislazione è aumentato, per due principali ragioni. La prima è che essa è pur sempre lo strumento cui ricorrono governi e parlamenti quando affrontano problemi nuovi. E siccome questi si succedono a ritmo incalzante, ne segue una rincorsa a perdifiato dei legislatori, impegnati a non perdere il ritmo. La seconda ragione è che, con la spettacolarizzazione della politica, la classe governante d’ogni paese si è abituata a usare la legge come veicolo di consenso, sfruttandone a livello mediatico l’alto potenziale simbolico.

Entrambi questi fenomeni hanno conseguenze perniciose. La velocità con cui si cerca di ingabbiare nella legge la complessa realtà che fugge genera provvedimenti privi di progettualità e frutto di impressioni epidermiche non sostenute da sufficiente conoscenza dei problemi. A sua volta, la strumentalizzazione simbolica della legislazione genera leggi vuote, simulacri di norme, epifenomeni privi di sostanza, che apportano solo confusione. Il risultato è l’impenetrabile foresta legislativa che ci avvolge, senza neppure più la guida del metodo giuridico, anch’esso in crisi, per trovare il sentiero. Una foresta dove allignano anche mostriciattoli ridicoli: nel 1988 la Corte costituzionale italiana dovette riconoscere, di fronte a un reato minuscolo, ignoto anche agli specialisti, che non sempre è inescusabile l’ignoranza della legge penale.

Certo il fenomeno non è uguale ovunque. Dove i conflitti sono meno aspri, l’autorità politica meno volatile, il senso della legalità più diffuso, esso è meno vistoso. In Italia è drammatico, uno degli aspetti più evidenti della decadenza del paese. Decadenza anche culturale nel senso spicciolo della parola, giacché accanto alla farraginosità, all’assenza di obiettivi chiari, agli orpelli che nascondono il vuoto, si accompagna sempre più, nelle leggi, una mancanza di rispetto per le regole della lingua italiana. Ciò moltiplica le interpretazioni, provoca somma incertezza sul diritto, rende impossibile calcolare i rischi, creando zone grigie in cui lecito e illecito si confondono: in breve, tradisce le finalità primigenie della legislazione. La legge in Italia è una variabile impazzita, tanto più che all’incertezza sui suoi contenuti si associa quella dovuta ai tempi incalcolabili della sua applicazione, specie in sede giurisdizionale.

Naturalmente si elaborano anticorpi per uscire da questo ginepraio. Molto diritto “che conta” – quello dei contratti cosidetti “transnazionali” – si produce in forme scritte, ma negoziate dai protagonisti stessi, con previo calcolo dei rischi e delle misure di contenimento: è quella che si usa chiamare lex mercatoria. Ma si tratta di fenomeni tanto importanti in valori assoluti, quanto marginali in rapporto alla gran massa delle relazioni sociali, regolate per legge. Ovvero, non fungono da contrappeso alla crisi da cui questa è afflitta.

Fra i tanti esempi, basta immergersi nella cosiddetta legge Fornero, n. 92/2012, e misurare il tempo occorrente a capirne il significato letterale. Molto doloroso è il confronto con le nitide formule del codice e dello Statuto dei lavoratori, il cui articolo 18, dopo il recente emendamento, risulta pressoché incomprensibile. Il fondo si tocca ogni anno con la legge finanziaria, campo di scorribande di tutte le lobby che la usano per inserirvi normicine della più varia natura, su cui nessuno oltre ai proponenti delibera coscientemente.

La cosa più grave è che l’incertezza investa, oltre al contenuto delle leggi, anche le forme e le procedure. Queste infatti, come ammoniva Natalino Irti, rimangono l’unica salvaguardia di fronte all’entropia crescente del sistema giuridico. Crollata anche la forma, è la legittimità del sistema, che vien meno. Il diritto si regge sul presupposto che i cittadini, in maggioranza, ne accettino le regole anche quando contrastano con i loro interessi. Se il dubbio investe tutto, cosa fare e come farlo, ognuno si sente libero di invocare un diritto personale, con degradazione della società verso la guerra di tutti contro tutti.

Non meno inquietante è la difficoltà di individuare dei rimedi. La tentazione di rinverdire il diritto giurisprudenziale premoderno è utopica di fronte all’ipercomplessa realtà odierna, che esige regole chiare e decisioni rapide. Il diritto negoziale dipende dalle parti ed è condizionato dalle asimmetrie di potere, che permettono ai più forti di imporre la loro volontà. La tentazione di affidarsi al giudice “creativo” non è meno illusoria. Il giudice di common law applica dei precedenti che lo vincolano anche eticamente. Importare questo sistema senza il contesto entro cui opera da secoli sarebbe puro provincialismo.

Resta quindi aperta solo l’esigenza di un profondo rinnovamento delle procedure di decisione democratica, che vanno semplificate in modo che la volontà maggioritaria si formi senza troppo assillo ed emerga con nitidezza, entro un quadro di regole costituzionali che ne delimitino il peso. Infatti, la legge è tanto più chiara quanto meno numerosi e più compatti sono i suoi autori. La parola di un singolo decisore è solitamente chiarissima ma ha costi politici ancora più alti di quelli derivanti dall’oscurità di norme nate dal confronto fra posizioni diverse. Dunque vi è un problema di equilibri, appunto costituzionali, risolvibile solo in un clima di adesione sulle regole della democrazia. In Italia siamo precisamente di fronte a questo problema.

 

Vincenzo Ferrari



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