11 giugno 2014

la posta dei lettori_11.06.2014


Scrive Antonio Piva a proposito della Pietà Rondanini – Ho ascoltato con molta attenzione l’intervista di Paolo Biscottini presentata nell’ultimo numero di questa testata. Sono d’accordo quasi su tutto quello che dice e che in parte non dice per brevità perché credo di conoscere il suo animo, il suo lavoro sensibile e attento ai cambiamenti e anche ai raccordi dell’arte contemporanea con il passato. L’essere d’accordo non esclude la possibilità di continuare il dialogo aggiungendo qualche precisazione che possa mettere in luce quegli aspetti del pensiero di entrambi che insieme compongono un’altra realtà.

Paolo Biscottini affronta il tema della flessibilità degli spazi museali che pure l’assessore Del Corno ha sottolineato in un suo recente intervento al Politecnico di Milano. Parla del coraggio necessario per affrontare strade nuove. Conferma il valore di un allestimento storico che documenta il travaglio intellettuale di un momento storico post bellico in cui il ricongiungere il disperso significava ridare alla storia della città la sua dignità nei luoghi con i suoi sedimenti.

L’allestimento dei BBPR andava, al momento della sua realizzazione, a rinforzare il concetto dell’unire e non dividere già avviato da Carlo Scarpa a Verona, da Albini a Genova nel museo del Tesoro di San Lorenzo.

Questi musei erano stati definiti “conclusi”, cioè completi nella loro rappresentazione della storia in edifici storici simbolo di ciascuna città. Conclusi perché ciascuno comprendeva pensiero e opere in una sequenza espositiva tridimensionale calibrata dalla sapienza espositiva in cui lo spazio unisce e determina relazioni tra forme e concetti aspaziali. Questi esempi, in verità pochi, hanno dato vita e forza alla musegrafia e alla museologia italiana che ha fatto scuola in tutto il mondo I nuovi musei hanno iniziato a scrivere storie tematiche raccogliendo reperti, ordinandoli, costruendo i perché la dove esistevano solo opere in molti casi nemmeno catalogate.

Negli anni ’70 una nuova rivoluzione sociale e culturale ha aperto altre strade alla museologia e alla museografia. Il tema della flessibilità dello spazio, avviata dagli stessi grandi maestri, è stata sperimentata dalla loro scuola e portata avanti dai museografi che erano stati loro allievi.

Se noi analizziamo i due momenti troveremo che l’uno è conseguenza dell’altro e che il pensiero dell’uno non è contraddetto da quello dell’altro. Faccio parte di coloro che credono che i musei conclusi vadano protetti e non trasformati, forzati con una flessibilità che non hanno e che non possono avere.

E’ il caso della Pietà, è il caso del piano terreno del Castello Sforzesco che sta perdendo la sua identità con la modifica della Sala delle Asse, le aggiunte di nuove opere e il trasferimento di altre. Jacopo Gardella, Amedeo Bellini, io stesso e molti altri da tempo abbiamo cercato di documentare il nostro punto di vista perché temiamo l’irreparabile.

Una soluzione alternativa ci deve essere e forse c’è se qualcuno vorrà ascoltare e riflettere ancora per essere al passo con la storia e non cedere alla barbarie.

Recentemente il Museo Civico Ala Ponzone di Cremona ha dovuto trasferire la raccolta dei violini esposti da anni nelle sale settecentesche appositamente restaurate ai nuovi spazi in altra sede progettati per una nuova esposizione inaugurata da poco. Il Museo Civico Ala Ponzone ha perduto in poco tempo circa il 70% degli abituali frequentatori. Vecchia attuale regola: unire, non dividere.



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