20 luglio 2009

IL VERDE CHE VORREI? POVERO, MA BELLO


Se il buongiorno si vede dal mattino, i trentacinque vasi giganti, posti dal Comune nell’afa di luglio in via Vittor Pisani, non promettono nulla di buono: pretenziosa la loro collocazione, che scimmiotta le arterie commerciali di tante metropoli, già sofferenti gli alberetti.

Il problema però non sta nella scelta degli agrifogli (nuovi ibridi fra Ilex aquifolium e Ilex Cornuta), ma nella difficoltà di pulire, annaffiare e mantenere in vita quei candidi vasoni.

Maurizio Cadeo, assessore all’Arredo, decoro urbano e verde, s’è fatto fotografare accanto ai nuovi “ospiti” in affollata coabitazione con panettoni, dissuasori, portarifiuti, pali e motorette. Tutto contento con le chiome al vento. E spiegava che «nuove alberature sono previste in Corso Buenos Aires, corso Vittorio Emanuele, Corso Garibaldi, Corso Genova e Naviglio Grande, Via Dante e Via Orefici, Via Montenapoleone».

Avremo dunque una giungla di vasi e fioriere in tutte le strade dello shopping? Un verde precario, fatto di soluzioni provvisorie e facilmente rimovibili, scenografiche e non strutturali, appariscenti e non permanenti? Perché un conto è una pianta in piena terra, destinata a crescere e durare. Altro conto è un vaso, che oggi c’è e domani chi lo sa. Sembra quasi che i nostri amministratori vogliano lasciare liberi suolo e sottosuolo: se li si coprono di piante, addio speculazioni. Non è così che Milano diverrà la città civile e bella, vagheggiata da Claudio Abbado con la generosa proposta dei novantamila alberi.

La qualità del verde del resto non dipende dalla quantità, ma dalla bellezza di parchi, viali e giardini. Come sosteneva Mies van der Rohe, famoso architetto tedesco, direttore della Bauhaus, migrato alla fine degli anni trenta del Novecento negli States, «less is more», il meno è meglio.

Perché, al posto di questi orpelli, che costano, ingombrano e non abbelliscono, non si comincia a curare bene le piante che abbiamo, a sostituire quelle malate? Perché non si disboscano le “foreste” di pali e paletti storti e disomogenei, perché non si aggiustano cordoli e marciapiedi e non si eliminano le auto nei viali alberati?

Poi, naturalmente, occorre chiedersi che cosa manca, sul serio, al verde di Milano, rispetto a Roma, Palermo, Parigi o Berlino.

La risposta è semplice: prima di tutto un grande Orto botanico, dove conservare e far conoscere gli alberi, gli arbusti, le erbacee, capirne la storia, le caratteristiche e l’evoluzione; di pari passo occorre cogliere ogni occasione per creare un mosaico di piccoli giardini silenziosi, al riparo dal traffico, proprio come i deliziosi spazi verdi che si affacciano sulla Sprea a Berlino o screziano i canali di Bruges; o come gli square londinesi e i freschi recinti delle chiese parigine. Dove si arriva a piedi o in bicicletta e ci si può fermare a leggere, riposare, giocare con i bambini. Angoli e piazzette, preziosi per la presenza di pochi alberi, ben accuditi e così belli, nel rincorrersi dei fiori e dei frutti, da “fissarsi” nella memoria di tutti.

Qualche esempio meneghino?

Il piccolo giardino con le quattro magnolie ‘stellata’ del chiostrino del Bramante in Santa Maria delle Grazie. Luogo di meditazione e di incanto, non solo per la vicinanza della chiesa e della sacrestia con gli “armari” dipinti, ma soprattutto per la chiarezza del disegno, scandito dai quattro alberetti che circondano la fontana. Ma anche Piazza Paolo VI, ombreggiata dalle paulonie, accanto a San Simpliciano. Facciamone cento di giardini così a Milano, nei chiostri, nei cortili, nelle piazze e raccontiamo le loro storie, sulle locandine o sul web, perché chi li frequenta li ami e li rispetti. Piantiamo rose e peonie negli oratori, disegniamo sagrati con gli ippocastani, come in San Pietro in Gessate, riempiamo i cortili di fichi e melograni e costruiamo nuove porte della città con le sofore pendule e i liriodendri amati da Manzoni. E a quelle piante, in piena terra, diamo tutte le nostre cure.

Marta Isnenghi



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