4 giugno 2014

CITTÀ METROPOLITANA: VERDE, PGT E I PICCOLI PASSI


Un’idea semplice, che vorrei brevemente sviluppare: di fronte a questo sistema metropolitano – la città e l’area urbana, più quello che rimane della campagna, più la grande periferia – partire dal verde può essere un ottimo approccio per innescare il grande processo della rigenerazione urbana; ai tre livelli d’intervento: riprogettare e mettere in cantiere il sistema dei parchi e del verde estensivo di grande scala, ridisegnare e passare a deframmentare e a realizzare nel concreto la rete ecologica, e infine lavorare al grande, straordinario sistema delle aree agricole, in particolare a quelle del Parco Sud.

02borella21FBIl sistema dei parchi di cintura, in particolare (quel sistema di parchi già da tempo presente nel disegno strategico del PGT e che tuttavia non diverrà mai realtà compiuta se per ciascuno di essi non sapremo dar vita a un progetto e, soprattutto, a un processo, quanto più possibile corale, di lenta elaborazione e di tenace e progressiva trasformazione territoriale) potrebbe davvero configurarsi come un primo spazio di governance di livello metropolitano, di attivazione anticipata cioè di una prassi di interlocuzione e collaborazione anche non formale, tra i comuni e le comunità interessate, sull’idea, sul progetto e sull’avvio del processo attuativo di ciascun singolo tassello di area verde metropolitana, di ciascun parco di cintura.

Una foto da satellite dell’area milanese, confrontata con una planimetria della stessa area di cinquant’anni fa, ci mette di fronte alla realtà, può darci un’idea sintetica di cosa sia successo a questo territorio in questo mezzo secolo. Quel che l’immagine ci mostra con immediatezza è uno sviluppo impressionante e informe della macchia grigia dell’urbanizzato, una compromissione generalizzata del territorio, un ingente consumo di suolo, l’entità e l’estensione dello sprawl metropolitano; quel che ci consente di dedurre è il sostanziale fallimento della pianificazione territoriale di area vasta e la “grande bruttezza” (Consonni).

Se, azionando lo zoom, proviamo a ingrandire quell’immagine satellitare, nell’insieme del grigio urbanizzato, fatto di aree compatte che si vanno poi sfrangiando in una serie di tentacoli, potremo poco a poco distinguere gli spazi bianchi interclusi: spazi aperti spesso frastagliati e residuali, che nel sud milanese agricolo diventano talora prevalenti e vasti e compatti, e rendono a loro volta intercluse le isole edificate (segno che, almeno come vincolo urbanistico, il Parco Sud ha funzionato), anche se variamente intersecati e tagliati da infrastrutture le più varie e spesso devastanti (e questo ci dice che ha funzionato un po’ meno).

Tra queste due parti di città, quella della macchia grigia dell’urbanizzato, che già si è troppo e disordinatamente estesa sul territorio, e quella degli spazi bianchi interclusi, comprendente sia i vuoti metropolitani che i grandi ambiti agricoli, l’urbanistica di nuova generazione dovrebbe porre forse un confine ben definito (la Regione Toscana sta facendo qualcosa in questa direzione; ma questo dovrebbe ormai essere un problema da legge urbanistica nazionale, che però in Italia, va ricordato, è ancora quella del ’42!). Un limite all’urbanizzato per porre fine o almeno contrastare duramente l’aumento del consumo di suolo libero e anche per sancire l’avvio di un’epoca storica in cui la macchia grigia della città abiotica non si può più espandere e deve perciò rigenerarsi e riqualificarsi al proprio interno (problema gigantesco ovviamente, si pensi solo all’impegno di riqualificazione delle periferie, dei quartieri dormitorio e in genere di tutta l’edilizia speculativa degli ultimi decenni). Così come, con processo complementare al primo, dovrebbe in parallelo avviarsi la riqualificazione delle “macchie bianche”, che da “vuoti urbani”, spesso anonime e degradate terre di nessuno, dovrebbero progressivamente trasformarsi in vero sistema del verde della futura città metropolitana, componente strutturale essenziale (e non di semplice decoro urbano) della città stessa.

Zoomiamo dunque ancora un po’, per andare a conoscerli un po’ più da vicino, questi spazi aperti di cui ci vogliamo occupare: per grandi categorie di aree. Abbiamo in primo luogo le grandi aree agricole, che per il territorio milanese coincidono in larga misura con le aree del Parco Sud, un “parco agricolo” voluto e creato per tutelare e rivitalizzare proprio queste aree periurbane, a un tiro di schioppo dal Duomo, con il loro straordinario paesaggio agrario, il paesaggio della “bassa”; supportato dalla ricchezza e dall’equilibrio di una agricoltura giocata sulla sapienza dell’uso integrato delle risorse, della turnazione delle culture, della tutela della fertilità del suolo, della regimazione delle acque; e segnato dalle piantate, dalle siepi, dalle colture di ripa, dalle boschine, dai cedui; e ricco della straordinaria architettura rurale delle grandi cascine, ma anche di castelli, monasteri, pievi, abbazie, mulini; e di tanto altro ancora.

Quanto rimane di questa “bassa” diciamo “storica”, che conserva la memoria del lavoro secolare degli umiliati e dei cistercensi? Poco purtroppo (nonostante si debba riconoscere come esito del parco una certa inversione di tendenza): domina ancora un paesaggio fatto di grandi spianate (qualcuno lo chiama “deserto agricolo”) quasi interamente destinato all’agricoltura intensiva della chimica e delle multinazionali, tagliato da una trama infrastrutturale onnipresente e invadente, ogni giorno minacciato dal cemento e da usi impropri.

Un po’ il parco ha funzionato, come si è detto; ma c’è ancora molto lavoro da fare, per far diventare davvero “parco” questa nostra semi cintura verde sud milanese; un lavoro soprattutto di conversione dall’agricoltura intensiva a un’agricoltura di prossimità urbana, di riscoperta o forse nuova invenzione del rapporto vivo e vitale di questa grande area “primaria” con la grande città, di rivoluzione di colture che diverrebbe anche rivoluzione paesaggistica: la reinvenzione di un nuovo paesaggio della “bassa” per l’oggi, anzi per il domani. Un lavoro che dovrebbe comprendere la creazione dei percorsi e delle aree di fruibilità pubblica del parco, e in particolare delle “teste di ponte urbane”, interfaccia con l’area urbana e organicamente parte della cintura verde metropolitana (perché il Parco Agricolo Sud non è fatto di sola agricoltura!). Un discorso vasto e complesso che qui non può trovare spazio e che potremo riprendere in una prossima occasione.

Ma quelle che avevamo chiamato “macchie bianche interstiziali” comprendono altro, altre tipologie di aree, in percentuale tutt’altro che trascurabile. Comprendono ad esempio suoli degradati e inquinati, suoli usati impropriamente come depositi di materiale all’aperto, “aree pattumiera” (discariche, baraccopoli, spesso mimetizzate da orti spontanei, sfasciacarrozze, depositi vari), aree recintate con le più improprie e improvvisate recinzioni, ogni sorta di edificato sparso, disseminato al di fuori delle aree urbanizzate, ivi comprese aree agricole dismesse, talvolta con corredo di cascine semidistrutte (e sappiamo quanto questa tipologia di aree a “usi impropri” o residuali abbia nelle frange extraurbane del nostro paese una incidenza paesaggistica assai più devastante che oltre frontiera, in qualsiasi altro paese).

Comprendono infine, importanti, le aree “naturali”, quasi sempre in corrispondenza di fiumi e torrenti e canali; basta qualche nome per farci capire quale realtà territoriale complessa, difficile, fatta in genere di marginalità, di abbandono pluridecennale, di indifferenza, di degrado e anche d’inquinamento, si celi entro questa categoria di aree: Lambro, Seveso e Olona, anzitutto, cui va aggiunto il Lambro Meridionale; e poi Lura, Bozzente, Lombra, Garbogera, Molgora, Ticinello, Vettabbia e, a scendere di scala, per fortuna verso sistemi più “sani” e puliti, tutto il sistema dei fontanili e della rete irrigua superficiale storica (compresa la rilevante quota parte dismessa e inattiva); e poi tutto il sistema dei navigli (Grande, Pavese, Martesana) e dei canali irrigatori (Villoresi, Muzza), scolmatori e deviatori; cui si può forse aggiungere, per analogia paesaggistica, anche se con problematica loro specifica, il vasto e diffuso sistema e paesaggio delle cave, sia attive che dismesse.

Di tutto questo articolato sistema di aree, che dovrebbe gradualmente trasformarsi nel sistema del verde metropolitano, una rilevante quota parte è da recuperare, risanare, riqualificare o riorientare, quando non espressamente da bonificare a sensi di legge.

La scelta del recupero agricolo (cui si deve accompagnare, come si è detto, l’obiettivo di progressiva riqualificazione dell’agricoltura da intensiva a periurbana, e della conseguente riconversione colturale e paesaggistica) deve essere incentivata ed estesa a quante più aree possibile, anche all’esterno del Parco Sud (ad esempio nelle residue aree agricole del nord metropolitano, bagnate dal sistema del Villoresi) così da incrementare la percentuale di aree verdi capaci di autotutelarsi e autoriprodursi, senza aggravio di costi per la mano pubblica, e da recuperare il massimo di terreni fertili all’agricoltura.

Perché tutto quello che non diventa verde agricolo, entra nelle categorie del verde pubblico, più o meno estensivo, o della rete ecologica, comunque delle aree verdi a carico della mano pubblica, sia quanto a oneri di bonifica, recupero, riqualificazione, che di trasformazione a verde, che (in spesa corrente, anno dopo anno) di costo di gestione.

Nel disegno strategico della Grande Milano, entro questo quadro vasto di necessità di riqualificazione complessiva degli spazi aperti, la priorità assoluta, per quel che riguarda gli interventi di competenza della mano pubblica, riguarda i grandi spazi interstiziali della periferia e la loro trasformazione in cintura verde metropolitana: un impegno straordinario per ricucire e interconnettere con il verde, e con il sistema della viabilità dolce, le periferie urbane con i tessuti edificati della prima fascia esterna; per trasformare aree marginali e degradate di periferia metropolitana in aree pregiate, in nuove centralità; per innescare, partendo dal verde, processi di riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica di area vasta, capaci di penetrare in profondità nei tessuti edificati circostanti, così da modificarne in positivo la vivibilità complessiva.

Nell’hinterland milanese, la più importante delle aree dove questa operazione di recupero e di trasformazione a verde, iniziata più di trent’anni fa, è pressoché completata, è quella del Parco Nord (640 ettari di area vincolata, più di 400 ettari già trasformati a verde; il primo Parco milanese moderno che segna il passaggio dalla scala urbana alla scala metropolitana); cui si possono sommare le esperienze similari del Boscoincittà e del Parco delle Cave, entrambe di Italia Nostra, entrambe dimensionalmente (sopra il centinaio di ettari ciascuna) e qualitativamente assai significative e importanti. Insieme questi tre parchi fanno una bella fetta del verde milanese, qualitativamente il meglio tenuto e il meglio gestito; e anche il più amato e apprezzato dai milanesi (da quanto risulta almeno dai frequenti sondaggi dei giornali cittadini).

Rappresentano anche, questi tre parchi, la parte realizzata di quella cintura verde metropolitana che abbiamo visto essere la vera priorità, l’obiettivo strategico che, in materia di verde, può saldare le previsioni del PGT urbano con le linee di un piano di area vasta, di rigenerazione e riorganizzazione metropolitana. E allora perché, ci chiediamo, non c’è stato alcun tentativo di ripetere, di esportare queste esperienze nell’area milanese, e in particolare per portare ad attuazione altri parchi di cintura?

Perché, ad esempio, all’inizio degli anni 2000, per il Parco Forlanini si è pensato al concorso internazionale, che non ha portato a nulla (ed anzi, recentemente, ha portato addirittura alla concessione per 19 anni di una splendida, storica area agricola, già di proprietà comunale, per la realizzazione di un campo pratica golf, privato, recintato, devastante e per di più autorizzato in pieno Parco Sud!), e non si è invece pensato al metodo Parco Nord, il metodo della gradualità, dei “piccoli passi”, del work in progress, del far nascere sul posto un piccolo “centro parco”, guidato da un responsabile, capace di ascolto delle associazioni e dei cittadini, catalizzatore di partecipazione e di volontariato, ma capace anche di individuare in loco le linee di minore resistenza lungo le quali far maturare progetti immediatamente cantierabili, in risposta a istanze sentite dai cittadini (e quindi più facilmente finanziabili)?

Come pure meriterebbe maggiore attenzione l’esperienza del Centro Forestazione Urbana/Italia Nostra che, con metodo assai simile a quello del Parco Nord, in quarant’anni ha realizzato e condotto in modo encomiabile il Boscoincittà, e in una dozzina ha riqualificato il Parco delle Cave, quando era ridotto a luogo di spaccio e terra di nessuno. Come mai queste esperienze sono più conosciute all’estero che valorizzate a Milano? Siamo sicuri di poterci permettere, coi tempi che corrono, di ignorare un modo di mobilitare il volontariato (quello di Italia Nostra appunto) che non riguarda qualche fazzoletto di verde qua e là, ma grandi obiettivi di scala urbana e territoriale, e che si accompagna alla capacità di realizzare, gradualmente nel tempo, ambiziosi progetti, a costi contenuti e anche in assenza di un piano di finanziamento iniziale definito (quindi in condizioni improponibili per qualunque tipo di appalto)?

Ecco dunque un’idea, una proposta, per il verde metropolitano, sopratutto per quei parchi di cintura che stanno disegnati sulla carta da quasi trent’anni e che non riescono a decollare, sia perché per questo verde estensivo di scala territoriale è improponibile il metodo dell’appalto, sia perché la pubblica amministrazione ha comunque grandi difficoltà a mettere in cantiere operazioni di trasformazione territoriale che si prospettano in partenza “di tempo lungo”, con prospettive di attuazione sull’arco dei venti/trent’anni.

Di fronte ai “grandi progetti” del sistema del verde metropolitano, invece di arrendersi e non farne nulla, accontentandosi di tenere per decenni un vincolo sulle tavole del PGT, penso che un’alternativa possibile sia di recuperare la metodologia dei “piccoli passi” e della gestione attiva, sul posto, delle dinamiche territoriali, operando concretamente su obiettivi intermedi, ravvicinati e possibili: quello ad esempio di dar vita sul posto a quella struttura minima di “direzione/centro parco” cui prima ho accennato, capace di attivare canali di ascolto e partecipazione, capace di valorizzare nuovi attori per il verde urbano e metropolitano (sull’esempio di Italia Nostra, ma anche di esempi stranieri altrettanto importanti), capace di portare a casa qualche primo risultato concreto di recupero territoriale, qualche primo tassello di area verde. Un primo passo in questa direzione può portare al conseguimento di un obiettivo importante: quello di aver “innescato il processo” verso il grande obiettivo finale (che continua a essere una prospettiva trentennale, ma che ora sarà sentito come più concreto e vicino, e meno irraggiungibile), l’obiettivo della futura grande area verde prevista dal piano di cintura, componente strutturale della grande città metropolitana.

 

Francesco Borella
Gruppo Petöfi – Dialoghi sulla Città Metropolitana /3

 

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