4 giugno 2014

EDILIZIA A LUCI SPENTE: IL CIECO GUIDA LO ZOPPO


Illudersi che Milano sia una città vitale e piena di salute è sempre più difficile. Interi palazzi vuoti, centinaia, molti di più di quanti sono censiti dal Comune di Milano, alcuni con penosi e sbiaditi cartelli affittasi/vendesi, altri senza neppure quelli. Saracinesche abbassate dovunque, anche nel triangolo d’oro del lusso. Ancora di più avventurandosi in periferia e nell’hinterland, dove ai palazzi e negozi vuoti si aggiungono i capannoni, sparpagliati dappertutto dall’illusione della crescita senza fine che ha unito immobiliaristi miopi e amministrazioni pubbliche malaccorte.

06origlia21FBRendendoci conto dell’enormità del fenomeno, non sapendo che fare diamo la colpa alla crisi. Ma chi ci crede ancora? L’economia delle merci è ovunque in declino, la produzione sempre più decentralizzata, il commercio risucchiato da nuovi centri commerciali che svuotano i vecchi negozi. Quanto agli uffici, la nebulizzazione del lavoro è un processo irreversibile. Nell'”arcipelago” milanese solo una piccola parte delle centinaia di edifici vuoti o semivuoti, le cui facciate sono ridotte a specchio anche di sera, perché senza neanche una luce accesa dentro, e senza neppure un auto nei posteggi, ritroveranno la vita. Milioni di metri cubi vuoti, miliardi di euro di investimenti immobiliari sbagliati. Risorse di fatto uscite per sempre dal sistema che dovrebbe produrre ricchezza e lavoro. Ma anche risorse sottratte alla soddisfazione di altri e ben più urgenti bisogni, ad esempio di abitazioni a basso costo per giovani e anziani.

Però per una volta tanto possiamo evitare di compiangerci guardando all’estero, siamo in buona compagnia. Lo stesso è accaduto dappertutto, in tutti i paesi occidentali. Ovvio, possiamo prendercela con il libero mercato, enfant prodige fasullo perché in realtà si è dimostrato incapace di badare persino a se stesso, o più direttamente con i pirati del capitalismo finanziario, i lavandai di denaro sporco che sguazzano nell’edilizia. Ma di fronte a una diffusione così globale del fenomeno è legittimo domandarsi se a rendere così precocemente obsoleti questi edifici non sia anche una visione sbagliata delle tipologie edilizie radicata nella nostra cultura stessa, o quanto meno in quella che accomuna imprenditori e architetti di tutto il mondo.

Ovvero c’è da chiedersi se non sia entrata in gioco la malattia infantile dell’architettura moderna, che ha colpito grandi architetti e urbanisti, da Le Corbusier in poi: il disprezzo per il passato e l’illusione di poter rifondare con la sola forza della ragione il processo di sviluppo degli insediamenti umani. Aborrita la cortina edilizia lungo le strade, sostituita con parallelepipedi “liberi” di fluttuare nello spazio, di fatto spezzando il senso del luogo dato dal “vecchio” sistema di strade e piazze, formatosi spontaneamente a rispondere a una gamma di bisogni umani civile e articolata.

Rifiutata la mixitè che ha mantenuto vivi i centri urbani per secoli, e guarda caso tali li mantiene tuttora a differenza dei deserti periferici, vista come disturbo dell’ordine razionale. Inventata l’aggregazione in comparti monofunzionali, per il lavoro, per dormire, per comprare, ecc., “conquistando” nuovi territori esterni alla città, di fatto ghetti a orario per car-addicted, sui quali si è esercitata una generazione di urbanisti da tavola (da disegno). Sostenuta la necessità di specializzare le tipologie e di inventarne di sempre nuove e geniali, anche se la miriade di abitazioni e uffici grandi e piccoli felicemente insediati nelle banali cortine edilizie di formazione ottocentesca la contraddice.

Ciò a fatto sì che la metastasi dell’edilizia secondaria e terziaria, che ha asfaltato gran parte del territorio, sia passata come progresso, connivente il capitalismo finanziario, per il quale la specializzazione tipologica ha costituito una grossa semplificazione dei processi sia produttivi che commerciali.

Cosa si poteva fare? Non c’era bisogno di guardare con nostalgia alla città dell’Ottocento, carica di problemi ed errori anch’essa, bastava imparare da quello che ci ha lasciato di buono. Si potevano fare piani di sviluppo urbano meno faraonici, piani che di fatto hanno consentito di sparpagliare metri cubi più o meno dove capitava, e invece sviluppare la città in modo più controllato.

Visto che l’edilizia si realizza attraverso manufatti che durano molto più di una generazione, si potevano soprattutto progettare e costruire edifici più flessibili, meno specializzati per funzioni, capaci di assorbire nel corso della loro lunga vita tutti i cambiamenti d’uso che ogni architetto consapevole potrebbe aspettarsi. Soprattutto in una civiltà ipertecnologica come la nostra.

In pochi lustri le necessità ambientali di chi lavora sono molto cambiate, e sono tornate a essere non molto diverse da quelle di chi abita: siamo tornati alla piccola dimensione, a rispettare l’illuminazione e il ricambio d’aria naturali, e l’attenzione per il risparmio energetico non fa che ridurre sempre più tali differenze, o rendere sempre più oneroso mantenerle. Da questo punto di vista i vecchi e semplici palazzi dell’Ottocento si stanno dimostrando assai più moderni dei palazzi di acciaio e vetro di trent’anni fa. D’altra parte quello che identifichiamo come centro della città sono ancora loro, il resto, non a caso, è chiamata periferia.

Certo, questo è senno del poi. Però ora ci troviamo davanti al problema di come ridare vita a un enorme quantità di “architettura” rifiutata, e sembra che nessuno sappia bene che pesci pigliare. Allora almeno partiamo dalla consapevolezza degli errori del passato, degli errori di noi architetti, urbanisti, amministratori: ciò ci aiuterà a capire che fare ora.

 

Giorgio Origlia



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