28 maggio 2014

sipario – MASSIMO SGORBANI al Piccolo e al Teatro I


 

INTERVISTA A MASSIMO SGORBANI

In questi giorni sei in scena con due spettacoli, Blondi al Piccolo e Per soli uomini al Teatro Libero. Il primo fa parte della trilogia Innamorate dello spavento, mentre l’altro è un testo che hai scritto più di dieci anni fa. Come sono nati questi due progetti? Innamorate dello spavento racconta la storia di tre donne che amarono Adolf Hitler e morirono insieme a lui nel bunker. Eva Braun, la sua amante (e moglie per 24 ore), Magda Goebbels, la moglie di Goebbels che avvelenò se stessa e i suoi sei figli e Blondi, il cane, un pastore tedesco. Avevo fatto leggere questo monologo a Federica Fracassi, le era piaciuto molto e aspettavamo l’occasione per metterlo in scena. Poi nel 2012 Federica ha vinto il Premio Duse come miglior attrice, mi ha chiesto se poteva leggere un pezzo del monologo alla serata di premiazione, che sarebbe stata al Piccolo. Io ovviamente le ho detto di sì. La lettura è stata molto apprezzata, e da lì è nata l’idea di una co-produzione tra Teatro I e il Piccolo. Merito anche di Federica che, nello stesso anno, aveva vinto l’Ubu ed era l’attrice italiana più premiata del momento.

sipario20FBAltrimenti sarebbe stato più difficile, per un autore italiano vivo, arrivare a essere messo in scena al Piccolo. Nel mio caso pensavo che sarebbe stato impossibile. Per cui è stata una sorpresa più che piacevole. Mi ha telefonato Federica e mi ha detto: “lo facciamo al Piccolo, va bene?” E io, come puoi immaginare, ho risposto: “No, guarda, non sono sicuro, preferirei un teatro più piccolo di periferia”. (ride)

Sei rimasto contento dell’allestimento? Sì, moltissimo. Anche se l’aspetto problematico delle grosse produzioni è che poi è difficile farle andare in giro. Ma lo spettacolo è venuto molto bene, secondo me.

Per soli uomini invece ha una storia diversa. Sì, è un testo che ho scritto molti anni fa, prima di Angelo della gravità e Le cose sottili nell’aria, cioè prima di iniziare a scrivere dei monologhi. Perché da lì in poi, più o meno e con qualche eccezione ovviamente, ho scritto quasi solo dei monologhi.

Come mai? Non lo so. Forse perché il monologo ti permette di esplorare delle connessioni non-logiche o, meglio, pre-logiche e quindi di entrare più in profondità in un personaggio. Con i dialoghi è più difficile – o forse non sono capace io, eh – perché nel botta e risposta si rischia di rimanere nello schema logico, nella dialettica dell’azione presente. Invece nel monologo, inteso soprattutto come monologo interiore, si svolge in un flusso ininterrotto che attualizza di continuo il passato, lo rimugina, lo trasfigura, lo ripropone in veste di presente. È, per dirla così, un passo indietro verso il caos, un luogo dove le parole non hanno ancora assunto un significato univoco perché, a ben vedere, chi monologa non ha come primo fine quello della comunicazione, e tanto meno quello dell’informazione.

Per soli uomini invece ha due personaggi… Due, sì, e un dialogo abbastanza serrato, anche se intervallato da alcuni monologhi – anche stavolta. Questa produzione di Per soli uomini è stata realizzata grazie a Teatro Libero, ed è nata da un’iniziativa di Giovanni Battaglia, che è mio amico da molto tempo e in questo caso fa sia l’attore che il regista.

Per soli uomini, insieme ad alcuni altri tuoi testi, era già stato messo in scena al Franco Parenti dalla Shammah in un rassegna dedicata a te. Beh, detta così sembra una cosa molto grossa. Ma in effetti è stato così.

Una personale su un autore vivente in un teatro importante è una cosa abbastanza rara. Sì, infatti è stato un momento molto bello e sono grato alla Shammah. Purtroppo la rassegna è durata solo cinque giorni. Ripeto: la cosa difficile in Italia è farli girare, gli spettacoli.

Com’è la scena teatrale milanese? Secondo me una delle migliori d’Italia. Perché ci sono teatri con ottime stagioni e c’è la possibilità di vedere di tutto. A Roma, per esempio, ci sono tanti teatri, più che a Milano, ma la mia sensazione è che molti facciano spettacoli “locali”, che nascono e muoiono lì. Lo dico con grande affetto, perché ho vissuto per quindici anni a Roma e la considero la mia città d’adozione. Però, l’ultima volta che ci sono stato, in giro ho visto solo cartelloni di comici, di spettacoli brillanti. E oltretutto gli attori non erano fotografati con i costumi di scena, ma c’era solo la faccia con un sorriso invitante, come a dire “vieni a vedere ME attore, non lo spettacolo”. Eppure conosco tanti bravissimi drammaturghi romani, o che vivono a Roma, e sarebbe bello che ci fosse più spazio per i loro testi, non solo per un teatro di intrattenimento che di per sé non ha niente di male, ma che non dovrebbe monopolizzare le scene di una città.

Ti è capitato di dover scrivere su commissione e come ti ci sei rapportato? Per il teatro no. Mi è capitato per la televisione. Ho scritto qualche serie insieme a Angelo Longoni, che come me è uscito dalla Paolo Grassi, ma la maggior parte delle volte l’idea e il soggetto partiva da noi, quindi non è stato frustrante come può essere – non so – scrivere per una fiction in cui ci sono dieci sceneggiatori ma la storia è già decisa. È stata una bella esperienza e secondo me abbiamo fatto anche delle belle mini-serie. Certo, io adesso sto seguendo molto le serie americane degli ultimi anni e le trovo strepitose. C’è molto metodo ma sono anche creativi. Hanno creato una scuola e facendo così non istruiscono solo dei bravi ragionieri, ma anche gente che poi si inventa qualcosa. È un peccato che in Italia la Rai non abbia seguito la stessa strada.

Che importanza ha avuto per te l’accademia? Più che altro mi ha fatto entrare in un mondo nel quale era considerato “possibile” fare questo lavoro. Prima sembrava tutto molto astratto, molto scollegato dalla realtà. Invece quando fai un’accademia incontri attori, registi e altri drammaturghi e che considerano il teatro una professione, non un hobby. Questo ti aiuta a prendere più sul serio la tua passione e – ovviamente – ti permette anche di conoscere persone con le quali sviluppare dei progetti. Dal punto di vista dell’insegnamento della scrittura, invece, sono sempre stato convinto – e lo sono ancora – che sia molto difficile da trasmettere. Puoi dare dei modelli, ma poi dipende tutto da quello che uno ha da dire. Se ce l’ha.

Da cosa parte di solito la tua scrittura? Dipende. Mi è capitato di prendere spunto da una notizia di cronaca (Angelo della Gravità), dalla lettura di un libro (le visioni mistiche di Angela da Foligno per Causa di Beatificazione), o dalla suggestione di una persona reale (la guardiana dei bagni negli autogrill per Tutto Scorre). E a volte niente di tutto questo, perché le idee, per definizione, sono quelle che “ti vengono in mente”, e non sai nemmeno tu perché.

Come vorresti che fosse il teatro italiano fra dieci anni? Risposta ovvia, forse, ma inevitabile: vorrei che ci fossero più testi di autori italiani contemporanei, che il teatro fosse una cosa viva, presente, non solo il luogo dove si mettono in scena i “classici”.

Emanuele Aldrovandi

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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