21 maggio 2014

RENDERE MILANO PIÙ BELLA. NON È FACILE, MA PROVIAMOCI


Non è per ulteriormente accanirsi sull’inconsistenza progettuale (cioè politica) e tecnica (cioè giuridica) della precipitosa legge Del Rio, che da poco si è costituito un Gruppo che vuole occuparsi della Città Metropolitana, nella speranza di giungere a un doppio risultato: da una parte dare un quadro più ampio e un fondamento più consapevole alle questioni che la nascita del nuovo ente suscita e comporta; e dall’altro ricercare le condizioni e i mezzi per fare, o sollecitare, un’opera di concreto riformismo, nonostante le angustie, ribadiamo, della legge.

milano - (lombardia): parco nord - esteso tra i comuni di milano, bresso, cinisello balsamo, cormano, cusano milanino e sesto san giovanniIl Gruppo prende casualmente, ma poi non troppo, il nome dal poeta romantico Sándor Petöfi eroe del Risorgimento ungherese, morto giovanissimo (1849) nel disperato tentativo di contribuire alla liberazione del suo paese dall’Impero austriaco. Anche noi pensiamo che la nostra città, come il nostro paese, abbia bisogno, e proprio ora, per uscire dalla crisi, di un qualche nuovo risorgimento, se la parola non ha sapore troppo militar- patriottico. E crediamo che serva almeno un poco di “poesia” per uscire dalla gabbia d’acciaio del totus oeconomicus, dall’opprimente equivoco che fuori della sfera economica ormai non ci sia altro, e che quindi si debba ridurre la vita all’unica categoria dell’utile, cioè a una sorta di partita doppia.

Noi la pensiamo diversamente. Ovvero, anzi meglio, crediamo che il successo economico ed anche la capacità di competere di una metropoli, cosa evidentemente necessaria, dipenda non solo dall’efficienza produttiva dell’apparato direttamente economico e dall’efficienza dei servizi offerti dalla città (quelli della nostra non sempre sono adeguati), ma anche, e molto, da quella che si chiama, con locuzione abusata, qualità della vita, che è mescolanza di tante cose, materiali e morali, di cose concrete e pure di cose ineffabili, e che tutte assieme concorrono alla piacevolezza di una città, al senso di una sua complessiva dignità. Ed è forse giusto la mancanza di queste cose che contribuisce alla perduta “magnificenza civile” di Milano (per citare Carlo Cattaneo, ricordato spesso da Giancarlo Consonni), città che invece una volta traeva da ciò la sua cifra distintiva, la connotazione della sua “bellezza riservata” (Alberto Savinio).

La grande città. Oggi, oltre la metà degli uomini vive nelle città. Ed è soprattutto in esse che si dà forma all’attuale “condizione umana”. Tale condizione è segnata, soprattutto nell’Occidente capitalistico, cioè nei paesi sulle due sponde dell’Atlantico, Europa e America, da esasperati processi di divisione sociale e dalla esclusione crescente di grandi masse dai benefici dello sviluppo economico e tecnologico.

Le città, nella loro stessa fisicità, nella forma e organizzazione degli spazi, sono sempre state testimoni della separatezza sociale. Ma ora lo sono di più. La città dei ricchi e la città dei poveri (Bernardo Secchi) sono segnate più rigidamente, e sono più distanti, più diverse ed estranee, tra loro più incomunicanti. Popolo e borghesia – diciamo così, per tagliar di grosso – una volta, ma non troppo tempo fa, a un di presso fino a quando la società ruotava attorno alle grandi fabbriche, erano più mescolati, sempre diversi e separati, ma contigui e comunicanti, necessariamente interdipendenti. La polarizzazione delle ricchezze, le diseguaglianze sempre più sfrontate sono all’origine della grande crisi, ma vengono accuratamente nascoste e perciò fanno poco scandalo. Anzi, la favola che si racconta è che la crisi sia dovuta al debito pubblico, e che il debito sia cresciuto per un eccesso della spesa per la protezione sociale. Per cui occorrono sempre nuove riforme (strutturali, naturalmente!), tagli e tasse.

In Italia, il 10 per cento più ricco della popolazione possiede il 50 per cento della ricchezza nazionale. Negli USA, il paese più potente del mondo, lo 0,6 più ricco della popolazione si accaparra il 39% del reddito annuo, cioè del PIL. Ma le cose vanno sempre peggiorando. Nei 15 paesi Ocse, tra il ’76 e il 2006, la quota dei salari (compresi quelli del lavoro autonomo) rispetto al valore aggiunto, cioè al Pil, è scesa dal 67 al 57%, di 10 punti. In Italia, nello stesso periodo è scesa di 15 punti, dal 68 al 53%. Il che vuol dire che anno dopo anno un fiume di soldi è corso dal basso all’alto, dai salari ai profitti e quindi alle rendite. Calcolati nei termini del Pil di oggi sono 240 miliardi di euro l’anno! (dati tratti da L. Gallino) In otto anni il ceto medio si è ristretto, scrive Piero Ignazi. Nel 2006 si ritenevano appartenenti a quella fascia sociale il 60% degli italiani, mentre oggi sono il 40%; e coloro i quali si considerano in fondo alla scala sociale sono passati dal 28% al 52%.

Una sì tale distorta e rovinosa sciagura in tempo di pace non si era mai vista nella storia. Come potremmo pensare che questa tremenda caduta non colpisca anche la nostra città, anche Milano, ripercuotendosi sul suo aspetto e sul suo carattere, sulla sua forma e sulla sua struttura, su i suoni e i colori, sulla lingua e sull’anima? Ne resterà un profondo segno indelebile, e quando fra due secoli si dirà di Milano com’era, cioè com’è oggi, allora forse la si racconterà con gli stessi termini usati dal Manzoni per descriverne la decadenza sotto gli spagnoli nel Seicento.

La crisi ci costringe a guardare il volto di Gorgona del neocapitalismo. Esso, con cura coltiva il grande giardino delle iniquità e rivela la sua intima vocazione alla produzione incessante delle diseguaglianze e del dis-prezzo degli uomini. Il capitalismo vede tutto in termini di prezzo e di valore di scambio! Perciò, nessun facile ottimismo ci può salvare. Forse, anzi, solo un imperterrito pessimismo può armare la nostra debole volontà di salvezza. La “coscienza (deve essere!) infelice”: ecco il paradossale e fragile appiglio e punto di risalita. Ma così la riscossa nasce, se mai nascerà, non dal canto, ma dal lutto del canto. E come potevamo noi cantare, alle fronde dei salici …

Ritorno alla natura. L’architetto Francesco Borella, dall’alto della sua esperienza di “padre” del Parco Nord, ci invita a usare lo strumento del parco per riqualificare, rigenerare e ridare dignità ai luoghi, per frammentare e separare parti della città costruita e, attraverso i corridoi ecologici, dare continuità al territorio biotico dentro la città cementificata e abiotica.
Torniamo alla natura, ma non certo per fuggire dalla città, bensì, visto che ci occupiamo proprio di essa, per tentare di darle maggiore “urbanità” e maggiore forza, anche competitiva.
La natura di cui parliamo è natura abbastanza addomesticata e disciplinata, parte di un organismo più grande e artificiale, la città. Ma, nello stesso tempo, essa istituisce con la città, di cui pur fa parte, un rapporto duale, di consonanza e dissonanza assieme. Parlano lingue diverse che però si possono armonizzare e comprendere. Il Parco, dicevo in un vecchio depliant del Parco Nord, è, rispetto alla città, controcanto e canone inverso. Il parco ci libera lo sguardo all’orizzonte, ci assegna tempi e ritmi diversi, ci incoraggia a una socialità più spontanea e cordiale, ci restituisce almeno un poco al piacere della contemplazione o comunque apre uno spiraglio all’esercizio della nostra sensibilità estetica. Insomma, il parco infrange almeno un poco la dittatura dell’economia.

L’uomo economico è una specie recente, creata dal capitalismo, e portata a esasperazione dal capitalismo di ultima generazione. Riguarda la bazzecola di qualche secolo, ma ha prodotto già una profonda mutazione antropologica. Ha forgiato l’uomo unidimensionale della logica strumentale, solo calcolo e interesse. Nell’epoca postideologica, questa ideologia-religione imperversa, e per essa tutto ha un valore economico, tutto ha un prezzo, e non c’è più tempo per nulla perché il tempo è danaro.

Il “ritorno -si fa per dire- alla natura” ha, credo, questo senso di parziale liberazione, di restituzione all’uomo sempre in traffico di un poco del suo tempo. Col Parco Nord credo che ci siamo riusciti. Io sono un fruitore massimo del parco (per via del cane) e naturalmente conosco tante persone che lo frequentano. Però mi capita, cosa che fuori non succede, di scambiare talvolta il saluto con assoluti sconosciuti, come usava una volta tra pellegrini e oggi ancora tra camminatori di montagna. E non solo il saluto e il sorriso ma anche di scambiare qualche chiacchiera occasionale, breve e leggera. Un autentico dono. Disponibile e uguale per tutti.

Il “verde”, i parchi, valorizzano i luoghi. Il Parco Nord (scusate, ma è la mia unica vera esperienza) ha trasformato il territorio della periferia, campi di risulta lontani dalla città, e ha portato “centralità” e qualità (ed anche valore economico). Ha “incivilito” le comunità già emarginate “oltre le mura”. Il Parco Nord non ha solo separato, ma ha anche unito. Non solo ha impedito la saldatura in un unico agglomerato dei diversi paesi dell’hinterland, ma li ha anche connessi, resi più vicini e tra loro dialoganti. Andare da Affori-Bruzzano a Sesto, una volta non solo era complicato, ma non aveva senso. Perché, se non costretti dal lavoro, andare a Sesto? A far che? Oggi ci riconosciamo nella comunità del parco, ci incontriamo, semmai per il puro piacere di “sconfinare”. Ci spostiamo facilmente a piedi o in bici e in un quarto d’ora raggiungiamo l’antipode di un tempo! Siamo diventati più metropolitani.

Ritorno alla geografia. Milano, la città di mezzo. Di mezzo ai monti, quelli a Nord, le Alpi, e quelli a Sud, gli Appennini; di mezzo ai fiumi, l’Adda e il Ticino, per non dire di molti altri; di mezzo alla pianura vasta, a cavaliere tra quella arida e quella irrigua. Milano ricca di acque abbondanti, tra canali e marcite, e terre tra le più fertili del mondo. Prima è venuta la geografia. Per molti secoli la fortuna di Milano è stata affidata alla bellezza dei luoghi, alla fortunata posizione, alla generosità della natura. Da tempo non abbiamo più occhi per queste bellezze. Da tempo il successo economico si accompagna al sacrificio costante delle risorse naturali. La metropoli, dice Consonni, si è mangiata la campagna e ha “aggredito assai” la città. La metropoli, espandendosi a macchia d’olio, senza ordine e spesso senza ragione, se non quello del profitto immediato che genera perdita di valore permanente, è stata anche il trionfo della “grande bruttezza”.

Arturo Calaminici

Gruppo Petöfi



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema





18 aprile 2023

MILANO: DA MODELLO A BOLLA?

Valentino Ballabio






21 marzo 2023

CACICCHI EX LEGE

Valentino Ballabio






5 aprile 2022

IL RILANCIO DELLA CITTÀ METROPOLITANA

Fiorello Cortiana


Ultimi commenti