21 maggio 2014

REGOLARE LA FOLLIA FINANAZIARIA. A CHE PUNTO SIAMO


In marzo Thomas Hoenig, vicepresidente del fondo di garanzia dei depositi bancari USA (FDIC), ci ha avvisato che le maggiori banche mondiali possiedono solo il 4% dei loro attivi. Per JPMorgan Chase, Bank of America e Citigroup sono 9.400 miliardi di $, oltre quattro volte e mezza il nostro prodotto interno lordo, a garanzia di un debito pubblico che lo supera del 35%. Le tre banche hanno a debito il 2400% del loro capitale, la loro garanzia: una perdita del 4% le porterebbe sull’orlo del fallimento, nel panico universale e crollo della finanza mondiale. Ricordate Lehman Brothers? Di recente Citigroup non ha superato lo stress test di Federal Bank. Troppo grandi per fallire, inducono i governi del mondo a socializzare le loro perdite, mentre privatizzano i benefici, a debito. Aumenta così la propensione al rischio, specie degli hedge funds che ora guadagnano con le commissioni, a prescindere dai risultati, attribuendosi una ricchezza che non hanno creato.

09gario19FBIn questi anni anche le 2.300 maggiori imprese non finanziarie USA hanno accumulato liquidità per oltre 2.000 miliardi di $, derivanti da profitti esteri non tassati, dal costo del denaro storicamente basso e da corsi di borsa invece storicamente alti grazie alla Federal Bank che inonda l’economia di liquidità a incentivo di investimenti che non creano lavoro, ma alimentano fusioni e acquisizioni di imprese estere, rafforzando gli oligopoli. Non solo le imprese americane, ma di loro si sa di più. Oggi, ad esempio, l’americana Pfizer dà la scalata all’inglese Astra-Zeneca, forte nella ricerca; in quindici anni, ne ha già acquisite tre, con 134.000 lavoratori dei quali 107.000 dismessi e anche in questo caso Pfizer annuncia riduzioni di posti di lavoro. Sembra si stiano eliminando i concorrenti scalandoli e addossando loro i costi di acquisizione.

Così si distrugge risparmio, lavoro, ricchezza, e la sovranità economica degli Stati, che non sanno più su che cosa puntare: le sedi legali, coi profitti da tassare, o gli impianti produttivi, che danno lavoro e introiti fiscali? La proprietà può trasferirli. La ricerca, importante quanto l’azionariato? Ma anche la tecnologia si trasferisce con i contratti internazionali. Come ha detto nel 2009 un potente di turno, bisogna “imparare a tollerare la disuguaglianza” [Lord Griffiths, vicepresidente di Goldmann Sachs: “Learn to tolerate inequality“, The Telegraph, 21/10/2009, cit. in J. de Saint Victor, Patti scellerati, UTET, 2013, p. 410].

La globalizzazione selvaggia di finanza e economia, guidata da interessi particolari e speculativi, è il motore della crisi, oggetto del forum OCSE del 5-7 maggio a Parigi sulla “crescita inclusiva”. In trent’anni i ricchi si sono accaparrati una parte sproporzionata della crescita del reddito (37% in Canada, 47% in USA) e i poveri (reddito sotto la metà della mediana) sono l’11% della popolazione dei 34 paesi OCSE, in particolare vedove anziane, bimbi e giovani, distribuiti a macchie di leopardo in regioni e quartieri urbani. L’educazione è fondamentale, assicura in media sei anni di vita in più, e estenderla in basso nella scala sociale è indispensabile allo sviluppo economico a medio termine.

Senza il contrappeso della democrazia, siamo preda della pochezza di una ideologia neoliberista distribuita ovunque per demolire le conquiste culturali del welfare state smantellato dopo il crollo dell’URSS, come se la giustizia sociale fosse solo un’arma della guerra fredda.

È pochezza anche tecnica. Nel 2010 Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno creduto di dimostrare che il debito pubblico sopra il 90% del pil condanna uno Stato al declino. Un ricercatore dell’università di Massachusetts ha controllato i loro conti: oltre ad alcuni dati omessi e a procedure statistiche molto criticabili, avevano fatto un banale errore di codificazione Excel. I due economisti ammisero l’errore, ma confermarono le loro conclusioni [P. Krugman, “The Excel Depression“, The New York Times, 18/4/2013], troppo in linea con l’ideologia dominante per cadere in discredito.

Per pochezza culturale si ignora che la crisi dello Stato viene ben prima di quella del Welfare. Nel 1920 Hans Kelsen individuò nella sovranità statale il fattore di guerra e ingiustizia in un mondo in rapida unificazione tecnica e economica, ma frammentato in stati in guerra per imporre le proprie regole. Kelsen fu ignorato a vantaggio del mentore nazista Karl Schmitt, riferimento, nel nostro piccolo, di Gianfranco Miglio, che il 20 marzo 1999, su Il Giornale, “si dichiarava apertamente favorevole al «mantenimento della mafia e della ‘ndrangheta al Sud», precisando sibillinamente: «Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. Esiste anche un clientelismo buono, che può determinare la crescita economica»” [J. de Saint Victor, pp. 336-7]. Il clientelismo locale è ciò che rimane di una sovranità statale ormai senza consistenza.

Prima che Miglio scoprisse il buon clientelismo malavitoso, Paolo Prodi pose la questione cruciale della cittadinanza come coscienza collettiva, “una stessa fede che coinvolga i gestori del potere e l’uomo comune”. “Fascismo, nazismo, comunismo sono stati tentativi di costruzione di una identità collettiva ideologica come surrogato, come falsa risposta a una crisi profonda che ha investito la forma Stato, come è cresciuta negli ultimi secoli e nel suo insieme nella realtà del mondo contemporaneo. Per questo la caduta del comunismo non ha avuto soltanto un aspetto liberatorio, come ultimo atto della caduta delle ideologie totalitarie, ma sta anche provocando l’accelerazione della nostra crisi: il pericolo che vediamo davanti a noi è quello di regredire non soltanto di alcuni decenni alla religione della patria, al pro patria mori dei nostri padri, ma di alcuni secoli, alla identificazione dello Stato e del potere con il gruppo etnico, la razza, la confessione religiosa” [“L’Europa e la memoria“, in AAVV, L’Europa crocevia, Studium, 1992, pp. 9-10].

Oggi questa è la realtà. Non ci è caduta addosso, l’abbiamo costruita con la nostra mentalità di sudditi di uno stato nazionale “ormai troppo grande per le cose piccole e troppo piccolo per le cose grandi” [L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Laterza, 1997, p. 49]. Il mondo intanto va avanti e sono a buon punto i negoziati per il trattato di libero scambio tra USA e UE che prevede tribunali di arbitraggio sulle possibili controversie tra multinazionali e Stati, togliendo così a questi ultimi la residua sovranità sui loro territori, ad esempio nello sfruttamento dei gas di scisto e nella coltivazione di organismi geneticamente modificati. I governi statali europei sono ipersensibili alla ideologia neoliberista e alle multinazionali, tanto da farsene lobbisti in UE, mostrandosi superficiali e inetti come i loro predecessori che nulla fecero per impedire la Grande guerra.

Le prossime elezioni europee sono perciò le più importanti della loro recente storia, ma anche di tutte le elezioni nazionali europee del nuovo millennio. La Commissione europea è sotto tutela dei capi di Stato, che prendono le decisioni principali nel Consiglio europeo; non vuole né può opporsi agli interessi onnipotenti e fuori controllo dei mercati globali. È ormai tempo di un reale governo europeo, eletto dal parlamento europeo che voteremo il 25 maggio. Se saremo anche noi superficiali e inetti, perderemo la nostra cittadinanza in cambio di un piatto di lenticchie, magari transgeniche.

 

Giuseppe Gario



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