21 maggio 2014

RIFORMA SANITARIA REGIONALE. NULLA DI NUOVO


Il progetto del PD per la riforma sanitaria della Regione, che è stato illustrato nel precedente numero di ArcipelagoMilano, costituisce l’ennesimo tentativo di proposte sulla Sanità; il primo commento non può che essere: “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”. Questo progetto dopo alcune proposte di riorganizzazione delle competenze e della gestione dei servizi propone, come elemento essenziale di novità, i Presidi di Comunità. Tali presidi hanno l’obiettivo di concentrare l’offerta di tutti i servizi sanitari di cui i normali cittadini hanno bisogno, come: medici di medicina generale, viste specialistiche, diagnostica leggera, cure non ospedaliere e anche servizi socio sanitari.

08balbo19fbMolto è già stato scritto sugli elementi positivi di questa soluzione che ridurrebbe l’eccessivo carico sugli ospedali e che permetterebbe una presa in carico globale del paziente aumentandone la soddisfazione e riducendo i costi che sono spesso legati a una duplicazione delle prestazioni. Questa proposta ha una lunga storia a partire dalle “Case della Salute” dell’allora ministra Livia Turco; in seguito riprese dai governi di centro destra sotto la sigla UCP, sino ad arrivare al recente Libro Bianco preparato dai saggi nominati dalla Regione Lombardia.

Poiché tutti sono d’accordo da venti anni su questa proposta, ma quasi nulla è successo, la domanda da farsi non è come intervenire sulla sanità, ma perché non si riesce a fare neppure ciò su cui tutti sono d’accordo.

Le ragioni sono duplici. La prima è la forte resistenza degli attori e degli operatori; in particolare i medici di medicina generale non vogliono perdere la loro autonomia oppure vorrebbero loro essere gli attori principali di queste nuove strutture, senza però avere le risorse imprenditoriali ed economiche per farlo. Inoltre gli erogatori privati accreditati con il Sistema Sanitario Nazionale non sono interessati ad avviare strutture che hanno una redditività bassa e che costituiscono una minaccia alla loro posizione di rendita.

L’altro motivo è l’incapacità del settore pubblico di avviare i cambiamenti necessari attraverso progetti innovativi e imprenditoriali. Il settore pubblico si è abituato a gestire l’esistente burocraticamente e si trova in difficoltà rispetto alla necessità di modificare le regole e le modalità di erogazione dei servizi. I grandi sistemi di welfare hanno avuto una costante crescita nella seconda metà del secolo scorso. Ora che le risorse disponibili non possono più aumentare la risposta giusta è modificare i modelli erogativi modificando anche gli assetti contrattuali e intervenendo sulle rendite di posizione. Inoltre il settore pubblico deve essere sempre più un regolatore piuttosto che un erogatore; questo implica un cambiamento delle competenze di molta parte della dirigenza pubblica. Nell’incapacità di dare queste risposte l’unica strada che si sta percorrendo è quella dei tagli.

In cima a questo vi è la responsabilità dei politici che non hanno capito la situazione, che non hanno il coraggio di affrontarla e neppure le competenze per farlo. Essi invece continuano a “giocare con il Lego”, cioè costruire dei progetti teorici senza minimante preoccuparsi di come realizzarli e senza neppure domandarsi e assumersi la responsabilità del perché quello che loro o altri hanno già proposto non si è mai realizzato.

Luciano Balbo



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