14 maggio 2014

SCONTRI DI PIAZZA E COMUNICAZIONE OSCENA


Da parecchi anni vado scrivendo di comunicazione iperrealista. L’ho fatto in un libro sul cinema postmoderno (“Ludici disincanti“), l’ho fatto in un libro sulla comunicazione televisiva (“Immagini del sentire. La neon-televisione“) e infine ne ho scritto analizzando la comunicazione politica contemporanea (“La svolta fiduciaria“). Non mi sarei aspettato di trovarmi a riparlarne a proposito di scontri di piazza e di violenze fra manifestanti e reparti della Celere (o reparti mobili come si chiamano oggi). Eppure proprio un articolo apparso in questi giorni sul giornale “La Repubblica” (19 aprile 2014) con un’intervista interessante a uomini della polizia mi induce a riprendere questo argomento.

03negri18FBMi rendo conto infatti che oggi più che mai ogni forma di narrazione pubblica tende ad assumere quei contorni della comunicazione iperrealista, così come l’ho definita in questi anni. Prima di entrare in medias res, vale dunque la pena di riprendere e approfondire questa categoria.

Uno dei primi a parlare di società iperrealista fu il filosofo francese Baudrillard. Egli dice che il voler mettere in scena il visibile più del visibile significa entrare nell’estasi oscena della comunicazione. Oggi, infatti, viviamo sempre di più nella società della troppità. La realtà vista o raccontata con occhi normali sembra non soddisfare più. Bisogna alzare il volume, bisogna stupire, creare il botto. Bisogna superare il limite, andare oltre il confine, uscire cioè dalla scena (o-sceno). In particolare mi riferisco a quella narrazione iperrealista che, se da un lato recupera alcuni aspetti del movimento artistico iperrealista, per esempio l’attenzione ossessiva per il dettaglio e la contaminazione dei linguaggi espressivi, dall’altro fonda il proprio statuto sulle categorie dell’eccessività, della dilatazione e della deformazione, della simulazione, avviando così veri e propri processi di derealizzazione perché l’iper-reale non è uguale a un plus-reale, ma a un minus-reale. In questo modo la verità non è più adeguazione del discorso a un referente ma un effetto pirotecnico di senso. Lo sguardo iperrealista diventa uno sguardo prostituito, vuole vedere tutto per vedere poco o niente. Così un racconto iperrealista si fonda soprattutto sulla pratica dettagliante. Il dettaglio da parte di un sistema diventa esso stesso sistema, non è più una sineddoche, cioè la parte che rinvia al tutto, ma esso stesso è il tutto.

Veniamo ora a quanto è successo a Roma negli scontri fra polizia e manifestanti. L’immagine, che riporta il dettaglio del poliziotto che calpesta il corpo di una ragazza a terra, ha fatto il giro del mondo, è stata postata quasi in tempo reale in quell’altrove che è la Rete e poi ripresa da tutti i programmi di informazione televisiva e dalla stampa. Questo è proprio l’esempio in cui il dettaglio osceno perde il valore retorico della sineddoche, cioè di una parte che rinvia a un tutto a un sistema intero, da cui è stato tratto, ritagliato (dal francese: “de-tail”), ma esso stessa diventa sistema, diventa il tutto. L’attenzione dello sguardo degli spettatori verte tutto e unicamente su quel dettaglio, su quel particolare degli anfibi del poliziotto che calpesta. In questo modo subito si perde di vista l’insieme, cioè quel contesto della piazza fatto di violenza, paura, rabbia, di bombe carta lanciate contro i poliziotti, “bombe che ti schiacciano lo sterno e ti spingono alla vendetta”, così raccontano gli ispettori di polizia al giornalista. Lo sguardo di tutti diventa circoscritto a quel dettaglio e quel dettaglio diventa tutto e crea indignazione, rabbia, desideri di vendetta e di giustizia sommaria.

Ma quel dettaglio è osceno, proprio perché costringe il nostro sguardo a collocarsi fuori dalla scena che si sta svolgendo nella piazza. Una scena di scontro e violenza concitata, che vede coinvolti soggetti diversi, avversari e nemici. È vero oggi con gli smartphone e le videocamere “la piazza ha mille occhi”. Ma il rischio è che questo vedere troppo non ci porti ad avvicinarci di più alla realtà e alla verità, ma anzi finisca per diventare un plus-vedere fine a se stesso, che serve solo a muovere le nostre emozioni basiche, la pancia, senza aiutarci a capire il senso di ciò che realmente avviene nelle piazze e fuori dagli stadi quando esplode quella violenza resa ancora più irrazionale da un’informazione iperrealista.

Senza voler giustificare un atto assurdo e violento come quello di colpire una ragazza inerme a terra, sono convinto che bisognerebbe davvero interrogarsi sui limiti e sulle regole di questa informazione “pornografica” (il cinema pornografico è stato infatti il primo genere audiovisivo a utilizzare la pratica del dettaglio fine a se stesso). Dopo essere stata coltivata nell’immaginario collettivo da tonnellate di spot pubblicitari e dalla televisione dei reality oggi la narrazione iperrealista prolifera sulla rete, dove ha trovato il suo terreno ideale al fine di produrre emozionoidi, cioè emozioni artificialmente indotte e nel contempo scintille di irrazionalità, di cui non abbiamo certo bisogno.

 

Alberto Negri



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