14 maggio 2014

sipario – ANNA DELLA ROSA: DAL PICCOLO A LA GRANDE BELLEZZA


INTERVISTA A ANNA DELLA ROSA

 

In questi giorni sei in scena al Piccolo con Clôture de l’amour, scritto e diretto da Pascal Rambert, il racconto – attraverso due monologhi – della fine di un amore. Che tipo di spettacolo è? È uno spettacolo molto intimo, ma non per questo cervellotico o psicologico, è una grande riflessione sul linguaggio che spazia da temi filosofici complessi ai dettagli intimi di un mondo che si disfa. Un lavoro delicato ma potente. Molto vicino al cuore.

sipario18FBLo spettacolo era già stato rappresentato in Francia dallo stesso regista con altri attori, tu e Luca Lazzareschi avete sentito il peso di quella messa in scena? E come vi ci siete rapportati? Allora, quando sono stata presa anch’io mi domandavo: “ma lui rifarà quello che ha già fatto in Francia oppure no?” E invece è stato stupendo. E la prima cosa che Pascal ci ha detto è stata: “io voglio fare lo spettacolo con voi, e voglio capire chi sei tu Anna e chi sei tu Luca e vedere chi possono essere i vostri personaggi con la vostra voce, il vostro corpo e la vostra sensibilità”. E non erano parole. Io e Luca avevamo visto lo spettacolo, perché ERT l’ha ospitato a Modena nella versione francese, ma come poi il regista ci ha detto avremmo fatto meglio a non vederlo perché in effetti nei primi giorni di prove ci portavamo dentro il ricordo di come l’avevano interpretato i due attori francesi, ma come dicevo lui ha voluto che i personaggi uscissero da noi e effettivamente lo spettacolo, alla fine, è molto diverso. L’impianto è lo stesso e ovviamente anche il testo – salvo due o tre versi che Pascal ha aggiunto al personaggio di Luca per fargli descrivere il mio personaggio in modo ancora più specifico – ma il modo in cui viviamo il testo e il rapporto fra i nostri personaggi è “nostro”.

Quest’anno sei stata in scena al Franco Parenti con Peperoni difficili, scritto e diretto da Rosario Lisma, che è anche tuo marito. Qual è la differenza fra un progetto più “istituzionale” (almeno dal punto di vista della produzione) come Clôture de l’amour e uno più fatto in casa come questo? Sì, sicuramente dal punto di vista affettivo è fatto in casa, visto che gli altri due attori, oltre che bravissimi, sono amici di una vita, però a livello artistico e produttivo (anche perché è una coproduzione fra il Teatro Franco Parenti e la nostra compagnia) fin da subito abbiamo avuto l’ambizione – e mi sembra che poi si sia realizzata – che nascesse “in casa” ma non fosse un prodotto “da casa”, bensì fosse all’altezza di tutte le realtà istituzionali. Con un coinvolgimento ancora maggiore, perché quando tu sei in prima persona e la compagnia è tua ti senti ancora più responsabile. È molto bello lavorare con persone con cui hai una tale intimità.

C’è la volontà di continuare, magari creando una compagnia? Sì, la compagnia c’è già, si chiama Jacovacci e Busacca e c’è assolutamente la volontà di continuare: Rosario sta già pensando a un testo nuovo, sempre con noi. Per quanto riguarda le differenze fra i due progetti, sono innanzitutto nel linguaggio. Clôture de l’amour è costituito da due lunghi monologhi caratterizzati da una ricerca molto specifica sul linguaggio, che a tratti è lirico. Peperoni difficili invece è un testo naturalistico, con i tempi proprio della commedia tradizionale. Alcuni dei modelli di Rosario sono Eduardo, Risi, Monicelli, Scola…

Vorreste farne un film? Sì, vogliamo. E ci sono state delle coincidenze per cui questo nostro desiderio pare non essere completamente campato in aria. Però è un progetto che richiede molto tempo e quindi vedremo. Però il desiderio c’è.

Visto che siamo arrivati a parlare di cinema ti farò la domanda più banale possibile: com’è stato lavorare ne La grande bellezza? Al tuo primo film hai già vinto l’Oscar, vorresti dedicarti di più al cinema o preferisci il teatro? Perché banale, anzi sono ben felice di parlare di un’esperienza così bella! Il mio desiderio principale è di fare teatro. È il mondo in cui io trovo linfa, necessità e piacere. Poi è chiaro che un’esperienza come La grande bellezza è stata meravigliosa, esaltante. Per cui ti dici: “se io potessi, una volta ogni due anni fare una cosa di questo livello sarei felicissima”. Ma non ho nessuna intenzione di concentrare le mie energie per fare cinema. Se poi arriva perché si incastrano costellazioni in modo fortunato, accetterò sicuramente. Poi ne La grande bellezza ho fatto una parte abbastanza piccola. Probabilmente fare un film da protagonista ti dà un senso di appartenenza diverso. Qui io mi sentivo ospite di una bellissima festa. Sorrentino mi è piaciuto tantissimo, fin dal primo provino. Lui ha una cura, un’intelligenza nello sguardo che ritrovi in quello che scrive e che vedi da come gira ogni scena. E poi è un uomo di una grande ironia, con quella flemma napoletana sorniona e geniale, per cui lavorare con lui era semplice. E pur nella confusione delle scene con moltissime comparse – le famose feste del film – lui era calmo e trasmetteva serenità. Poi recitavo con Verdone che, oltre a essere un attore fantastico, è una persona di una grande gentilezza. Quindi, come prima esperienza, direi che sono stata fortunatissima.

Tornando al teatro, come ti sembra la scena milanese? La migliore d’Italia. Io credo che ci siano grande ricchezza e serietà e dei criteri reali, legati alla qualità del prodotto e non ad altre dinamiche. E poi è variegata: puoi trovare uno spettacolo che viene dall’estero oppure una compagnia realmente giovane che sta sperimentando. È una realtà multiforme e non troppo modaiola. E questo è un bene secondo me perché mi pare che la “modaiolità” possa a volte dare origine a equivoci.

Tipo? Tipo spettacoli in cui si fa fatica ad afferrarne il senso profondo, la ragione, che non tengono minimamente conto del pubblico e che a volte, proprio per questo, mi pare siano anche offensivi, non della morale ma dell’intelligenza degli spettatori.

Come vorresti che fosse fra dieci anni il teatro italiano? Visto che tutti dicono che siamo a un passo dal collasso, io spero che davvero si possa toccare il fondo per poi risalire, rinnovando delle dinamiche che ritornino a un pragmatismo e a un verità di dialogo con il pubblico. Vorrei che il teatro non fosse assoggettato a logiche economiche fuorvianti, per cui ci sono dei cartelloni incoerenti e sconclusionati. Spero si riesca a ricreare un dialogo con le persone che ci vengono a vedere, che si riescano ad aprire dei mondi in cui far perdere e vivere il pubblico. Anche perché alla gente, giustamente, cosa gliene frega del teatro se quando ci va si annoia o vede della gente spogliarsi a caso? Vorrei che si andasse in questa direzione. È difficile, ma credo che ci si possa riuscire.

E tu? Io spero di portare avanti il cammino con la nostra compagnia e di continuare a fare cose belle anche al di fuori di essa, con onestà e passione.

Emanuele Aldrovandi

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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