7 maggio 2014

musica – LA MALEDIZIONE DELLA SCALA


 

LA MALEDIZIONE DELLA SCALA

Gli alti e i bassi, e anche gli improvvisi silenzi, cui da anni ci stiamo abituando a proposito del “tempio” della musica per eccellenza che è La Scala, cominciano ad avere il sapore della maledizione (o, come viene definita dal Sabatini Coletti, una “punizione scagliata dalla divinità su qualcuno o qualcosa o invocata dagli uomini come augurio di male”); basta mettere in fila gli ultimi tre decenni di vita del Teatro, a partire dalla crisi che si venne a determinare nel 1986 fra l’orchestra e il suo direttore Claudio Abbado, per capire come sia cominciato allora un declino dal quale ancora oggi non riusciamo a liberarci.

musica17FBProviamo a ricordare sinteticamente i capisaldi della storia del Teatro e della sua incontestata eccellenza. Finita l’epoca delle grandi “prime” delle opere di Salieri e Rossini, di Donizetti e Bellini, di Verdi e Puccini (l’ultimo di questi straordinari eventi è stata la Turandot nel 1926), eravamo già entrati nell’era di Toscanini che – a parte il momento buio del fascismo e della guerra, conclusosi con la riapertura del 1946 e con il debutto di Renata Tebaldi – si è subito saldata agli anni di Victor De Sabata (c’era anche Maria Callas!) e poi di Claudio Abbado; in quei mitici quarant’anni abbiamo sentito, oltre alle voci più belle del mondo, direttori d’orchestra come Guido Cantelli, Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler, abbiamo avuto direttori artistici come Francesco Siciliani e Luciano Chailly, sovrintendenti come Paolo Grassi e Massimo Bogiankino, e registi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti. Della Scala non si dicevano che meraviglie, tutto il mondo ce la invidiava, ogni musicista la considerava la vetta più alta da scalare per il successo.

Nel 1986 l’orchestra contesta Abbado (quanto lo rimpiangerà …) e crea un vulnus che praticamente non si rimargina più. Arrivano Riccardo Muti (qualcuno lo ha amato, altri meno, altri ancora lo hanno detestato) e Carlo Fontana (idem), il Teatro si chiude in una sorta di arida autarchia, tutto comincia lentamente a decadere fino al triste – ancorché necessario – periodo degli Arcimboldi e al tragico 2005 in cui tutti litigano con tutti e l’orchestra, sempre più ferocemente sindacalizzata, si cimenta in una pessima parodia del film di Fellini.

Tragedie, mal di pancia, lotte a coltello e finalmente l’inizio di una nuova era: l’arrivo in Teatro di Stephane Lissner e subito dopo di Daniel Barenboim assomiglia curiosamente alla comparsa, sulla scena politica italiana, di Mario Monti. Lo stesso entusiasmo, lo stesso “stato di necessità” trasformato in gaudio e in sentimento di rivincita sull’impotenza della Storia; vengono giustamente messe a tacere le voci di quei provincialotti leghisti che avrebbero voluto direttori e sovrintendenti nati e cresciuti esclusivamente a sud delle Alpi, soprattutto si traggono grandi sospiri di sollievo all’arrivo di nuovi direttori (che belli quei giovanotti di “El Sistema” Gustavo Dudamel e Diego Matheuz!) e nuovi registi (dalla magnifica Emma Dante della Carmen all’imperscrutabile Damiano Michieletto del Ballo in maschera); ma intanto, poco a poco, si scopre che Lissner non ne azzecca più una – o comunque ne azzecca sempre meno – e che Barenboim vive solo di rendita, fa una gran confusione fra suonare il pianoforte e dirigere l’orchestra, e soprattutto mette troppo poca attenzione nel suo impegno italiano. Per non dire degli ultimi registi!

Ed eccoci ora, punto e daccapo, alle prese con Alexander Pereira. Vorrei potergli attribuire tutte le giustificazioni che meritano una bella carriera e un ottimo background; ma con quella brillante operazione – vendere con una mano (austriaca) e comprare con l’altra (italiana) sei o sette (o più?) allestimenti, prima ancora di essersi insediato e di averne titolo – vi sembra che si sia dimostrato all’altezza del compito che l’aspetta? E il buon gusto? E il garbo istituzionale? È vero che ci siamo assuefatti fin troppo bene ai conflitti di interesse, ma vi siamo condannati proprio per l’eternità?

Credo che abbia fatto molto bene il Sindaco Pisapia – malgré lui anche Presidente del Consiglio di Amministrazione della Scala – a chiedere spiegazioni e a prendere tempo prima di decidere; ma non vorrei essere nei suoi panni perché se annullare la nomina di Pereira è inopportuno, confermarla è probabilmente peggio. Non riesco a immaginare come potrà cavarsela.

Questo povero Teatro pare dunque non avere pace e la china su cui è avviato sembra non avere fine. L’unica roccia ben piantata in questo fiume in piena sembra essere Riccardo Chailly, il direttore musicale appena nominato, reduce da grandi successi sia in Italia (con laVerdi di cui può essere considerato uno dei padri fondatori), sia oltralpe (e in particolare a Lipsia). C’è solo da sperare che da una parte la liaison con Stefano Bollani – circondata da grande simpatia e allietata dal successo – e dall’altra il contratto con la Gewandhaus di Lipsia – che durerà fino al 2020 – non lo distraggano dall’impegno colossale che incombe sulle sue spalle: quello di vincere la “maledizione della Scala”.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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