30 aprile 2014

25 APRILE E PRIMO MAGGIO: UNA OCCASIONE PER CHI? PER COSA?


Dal ’46 a oggi le due feste nazionali, il 25 aprile e il Primo maggio, si sono sociologicamente trasformate, in peggio: dunque dobbiamo riflettere sulle cause e sui rimedi. Un fatto è certo: ogni manifestazione è buona per gli infiltrati, la curva sud della società; dunque che la curva sud ci sia anche il 25 aprile o il Primo maggio non stupisce ma riguarda la più o meno diffusa rabbia sociale senza particolare colore politico. Primo maggio e 25 aprile sono però qualcosa di diverso per l’esplicito contenuto politico che connota fortemente queste due ricorrenze e che le riconduce inevitabilmente a valori non universalmente riconosciuti dalla cittadinanza, in particolare il 25 aprile.

01editorialeFB16Chi vi si riconosce annette alla libertà, alla democrazia, all’uguaglianza, all’antifascismo, all’antimilitarismo, alla lotta al razzismo valori “non negoziabili”, come si dice da qualche tempo. Sono valori tutti che attengono alla sfera morale individuale e che, per chi vi si riconosce porta a costituire una collettività, fortunatamente numerosa, di sentimenti unitari.

Proprio per questa particolare condizione vedo con pena e infinita amarezza la consuetudine della destra a sollecitare la partecipazione di un sindaco di sinistra, a Milano Giuliano Pisapia, perché partecipi a manifestazioni indette da forze politiche che si richiamano a valori opposti, dichiarando “ lo deve fare perché il sindaco è sindaco di tutti”.

Non è così. Il sindaco, con fascia e senza fascia, è il sindaco di tutti strettamente nell’ambito delle questioni amministrative della città, quando si occupa dei beni comuni e del benessere economico e sociale dei suoi concittadini. Negli altri casi, quelli nei quali sono in gioco i suoi valori “non negoziabili”, valori nei quali si sono riconosciuti i suoi elettori, ha il dovere di prendere le distanze. Non mi scandalizzerei di certo se un sindaco eletto nelle file dell’estrema destra si rifiutasse di partecipare alle celebrazioni del 25 aprile, e, se partecipasse, sarebbe in mala fede, o opportunista: la razza spregevole.

Il Primo maggio non è proprio come il 25 aprile perché è la festa del lavoro, che in Italia si celebra dal 1890. Ci fu la pausa mussoliniana: il duce la abolì nel 1923 dopo l’arresto di moltissimi militanti comunisti e il licenziamento di migliaia ferrovieri che avevano partecipato a uno sciopero. La festa fu sostituta con quella del 21 aprile, Natale di Roma. Nel ’45 fu subito ripristinata e rimase indissolubilmente legata ai valori che rappresentava prima dell’abolizione fascista e in odio ai quali fu abolita. La sua connotazione prevalente è certamente di sinistra e da qui ripetuti tentativi della destra di abolirla nuovamente o di avvelenarne il clima infiltrandosi nei cortei e provocando disordini e danni materiali per intimorire la cosiddetta “maggioranza silenziosa”.

Disordini evitabili nell’una e nell’altra celebrazione? Nelle manifestazioni in genere? Dobbiamo parlare l’ambiguo linguaggio della “pacificazione”: l’illusione permanente. Qui e ora il discorso si farebbe meritatamente lungo: ne riparleremo. Tanto per cominciare, chi ha lasciato correre quando Sgarbi diede la stura alle risse negli studi della televisione pubblica e introdusse la violenza verbale nel dibattito, ingrediente ormai ineliminabile per fare audience? Chi lucrò e lucra denaro sulle curve sud e la loro violenza? Chi ha visto spargere i semi della violenza verbale che inesorabilmente si trasforma in violenza fisica voltandosi dall’altra parte? Quanti intellettuali hanno guardato al fenomeno con eburnea indifferenza? I cattivi sentimenti sono come la cattiva moneta che scaccia quella buona. Il male è fatto ma non si deve disarmare cominciando a tenere la schiena più dritta ma anche imparando qualcosa.

Durante le sfilate, se sul palco ci sono le autorità o ancora meglio se sfilano, qualche sberleffo è inevitabile: l’occasione per far sentire la propria voce è troppo ghiotta, magari per ribadire che c’è ancora troppa distanza tra eletti ed elettori, ancorché della stessa area politica, anche allargata. A Milano qualcuno ha chiesto a gran voce “più partecipazione”. Il discorso di nuovo si fa lungo e lo riprenderemo perché merita attenta riflessione: la partecipazione sta facendo i primi incerti passi, non la s’improvvisa da un giorno all’altro. Partecipazione e democrazia sono due direzioni verso mete irraggiungibili: ci possono essere sempre maggior partecipazione e maggior democrazia. Ci vuole una paziente costante volontà.

 

Luca Beltrami Gadola



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