16 aprile 2014

EXPO. L’AUTOCELEBRAZIONE AL DI LÀ DEL PONTE


Affrontare il giorno nuovo, con l’obiettivo di scoprire la città; non la ricerca di una brandello della città storica celato alla vista, ma di una parte in divenire che dovrebbe rappresentare il prossimo cuore pulsante di quella che si preannuncia come la Milano del futuro, ormai prossimo. C’è l’Expo a Milano – o meglio ci sarà – e la curiosità spinge sul campo a vedere cosa succede realmente. Non solo manifesti, brand, primi punti di contatto, ora desideriamo vedere il luogo fisico reale che rappresenterà la nostra città, il nostro paese tra 15 mesi.

07bonessa_guccione15FBIl viaggio non è pianificato, si parte solo “annusando” la strada, seguendo una direzione indicata. Mentre percorriamo le strade di Milano vediamo i segni del cambiamento in atto: Citylife, il Portello, tanti interventi diffusi in molte zone diverse che stanno mutando pelle della città. È come se il tessuto si stesse trasformando. La domanda che ci accompagna è: ma quale sarà la natura di questa città? Expo rappresenterà l’occasione per dare una chiave di lettura sul suo volgersi verso il futuro?

Le strade si srotolano davanti a noi portandoci ai margini di Milano. Da semplici turisti per caso ci domandiamo: Dov’è questo Expo? Ci aggiriamo così per la periferia cittadina tra cantieri e strade sterrate, chiedendoci se finalmente, in questa occasione speciale, l’architettura moderna sarà capace di riappacificarsi con i cittadini che a volte la vivono come una violenza, una imposizione, una rottura di un equilibrio raggiunto.

Perché durante il viaggio il dubbio che sorge spontaneo è l’operazione “Expo” avrà la capacità di raccogliere stimoli, fascinazione per trasformarli in esperienza reale? Le esposizioni internazionali hanno sempre ricercato di esprimere “la capacità delle nostre società di realizzare una trasformazione molto estesa nello spazio, in un tempo breve, efficacemente” (1), ma Milano riuscirà a trasformarsi?

L’incontro fisico che abbiamo avuto con Expo è inevitabilmente con la sua Porta ideale, la prima struttura-architettura, che ne sta caratterizzando l’apparire e che congiunge la città e l’esposizione: il nuovo ponte di collegamento con Milano, il cui compito è ricucire la cesura provocata dal nodo autostradale dell’A4 e A8. Per la suo sedime, tra il sito di Expo e la città di Milano quest’opera infrastrutturale si pone metaforicamente come il ponte tra l’esistente e il futuro, dovrebbe essere suo compito formale il superamento di un confine.

Infatti l’esistente è un confine per il suo essere evidente, radicato e sintomatico, per il suo essere periferia, territorio sgranato, in cui la forma e la funzione non esprimono più a una sintesi spaziale riconoscibile; a un primo approccio fisico, l’esposizione non parrebbe rispondere adeguatamente alla speranza di poter incidere sui processi di trasformazione della città. Localizzare l’esposizione nelle frange estreme dovrebbe corrispondere all’obiettivo di attuare un ridisegno armonico dello sviluppo urbano, di dare forma alla cultura e alla passione civile del progetto in grado di ricucire le trasformazioni, che hanno investito queste aree periferiche, cancellandone l’identità – né città né campagna.

Ma non volendo fermarci a questo primo livello di valutazione procediamo nell’osservazione. Il nuovo viadotto è caratterizzato da piacevoli formalismi, da degli archi ribassati che riportano alla memoria altri archi monumentali, uno su tutti l’arco simbolo progettato dal Gruppo di Adalberto Libera per L’Esposizione Universale programmata nel 1942 a Roma, ma dal disegno più “politicaly correct”.

L’opera è in costruzione. Alcuni operai sono al lavoro per serrarne i fissaggi, altri a dipingerne le superfici. Al di là del viadotto si intravedono le opere di Expo. Risulta difficile dare un giudizio più approfondito. Dovremo aspettare che vengano dipinti gli archi (alternati di bianco e di nero)? Dovremo aspettare di essere visitatori che si avvicinano alle recinzioni di un Expo completata?

Certo che i presupposti elaborati avvicinandosi sono già sfumati. Non abbiamo trovato un nuovo modo di saldare, di relazionare le parti. Attraversata la periferia “tradizionale” ci troviamo di fronte solo a un opera infrastrutturale. Dobbiamo attendere ricordando che “in questo campo gli errori e le distorsioni non sono pochi; e ogni giorno assistiamo a iniziative e opere, sia da parte delle pubbliche amministrazioni che degli architetti, in sé positive ma prive di quella validità che solo una prospettiva unitaria di sviluppo può sicuramente offrire“. (2)

E poi l’altra domanda che ci poniamo è se l’uso dell’arco, non isolato, ma a chiusura del viadotto a volerne rappresentare quasi un elemento strutturale, non ne snaturi il simbolismo. Sembra portante, ma non lo è. Sembra strutturale, ma non lo è. Pare che manchi il coraggio di lasciarlo isolato, quasi ci sia una timidezza di fondo a dichiararne la sua inutilità funzionale, nel timore che la cittadinanza non capirebbe, assolvendolo, un gesto esclusivamente estetica.

C’è un viadotto, non un ponte, perché tale è con i suo pilastri ben piantati nel terreno, a cui si aggiunge un arco monumentale, così come, nel nostro percorso di avvicinamento, abbiamo incontrato i padiglioni delle Fiera di Milano a cui è stata aggiunta una inutile e invasiva copertura senza nessuna funzione se non quella di attrarre il viaggiator cortese, con domande sulla sua estraneità, o anche i due portali Expo di Largo Cairoli che sembrano sovradimensionati rispetto agli spazi contenuti. Tre esempi della tendenza a enfatizzare gli interventi architettonici su cui non è assolutamente nostra intenzione sviluppare una critica architettonica o aprire un dibattito culturale tutto interno alla categoria dei progettisti .

Desideriamo invece cercare di vestire i panni del cittadino, del cliente delle nostre opere, di colui che l’architettura in un certo senso la subisce o sente di subirla perché la trova ridondante, inutile, rivolta all’eccessivo dispendio in una corsa autocelebrativa del suo autore sulle spalle del suo committente. E ci chiediamo se questa prassi non allarghi e approfondisca sempre di più il solco tra chi progetta e chi dovrebbe aver bisogno di progettazione. Se non si dia sempre più voce a chi pensa che gli architetti siano un bene di lusso, spesso inutile per rispondere a esigenze funzionali e di organizzazione e ottimizzazione di spazi e costi, così rivolti alla ricerca del fenomeno a effetto.

Si tratta di capire se chiedere un maggior coinvolgimento dei progettisti per migliorare la qualità dell’abitato, dell’edificato, del costruito non sia in contrasto con una prassi che sembra invece cercare sempre una clientela autocelebrativa, disposta ma soprattutto con grandi disponibilità. La qualità architettonica di una città è la sommatoria della miriade di piccoli, singoli e unici interventi che la compongono. Ma perché questa si sviluppi vi è la necessita di una progettazione diffusa e capillare.

E a questa necessità si può rispondere esclusivamente offrendo un processo accessibile a tutti, disponibile, amichevole e coinvolgente. Un processo che non solo adotti un linguaggio comprensibile ma che renda faccia dell’architettura lo strumento per ottimizzare e non sprecare le risorse. Forse inutili archi, coperture riportate e volumetrie sovradimensionate non sono la strada giusta. O no?

 

Andrea Bonessa e Fabrizio Guccione

 

(1) Roberto Collovà, Lisbona 1998 Expo, Testo & Immagine, 1998

(2) Aldo Rossi, La città e la periferia, Casabella e continuità, n. 253, 1961



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