16 aprile 2014

IDEA DI CITTÀ: SOPRA I TEMI POSTI DA ALBERTO CARUSO


Comprendo le osservazioni di Alberto Caruso e riconosco in esse anche alcuni motivi di una formazione comune; ma non le condivido. L’allineamento degli edifici, è indubbiamente un valore in alcune parti di città (anche per il tema dell’isolato), ma non “la regola elementare che ha dettato la costruzione della città da più di cento anni”. In realtà in questi cento anni è accaduto di tutto, e i migliori allineamenti, anche di gronda come in Via Dante, sono avvenuti prima. E, anche prima di cento anni fa, sono stati contraddetti rilevanti fatti storici della città: il grande perimetro del Lazzaretto, ad esempio. E che dire del mancato allineamento tra il rettifilo della deprecata stazione di testa e la via Turati? Ne ha già trattato in modo esauriente, a suo tempo, il de Finetti.

09bono15FBSi potrebbe continuare, ma la questione che si vuole porre è questa: l’idea di città, locuzione che opportunamente usa Alberto Caruso, è qualcosa di più complesso e vasto, e risale all’antico ruolo di Milano quale città stato, con le sue grandezze e le sue miserie. La città che in epoca viscontea ha avuto uno sguardo tanto lungo da fondare la propria università a Pavia; che all’inizio del Novecento aveva un tram che da Porta Venezia conduceva al “suo” parco, cioè quello di Monza. Certo, non sempre cose grandi: come la prossima esposizione mondiale chiusa tra il Cimitero di Musocco e il Carcere di Bollate (con tutto il rispetto per quel carcere modello).

E se un non allineamento disvela alcune intimità familiari, come dice Caruso, anche queste tracce che emergono sono architettura, e non solo le finestre come occhi vuoti delle ville del sublime Palladio. Quindi non vedo nulla di impudico in quei mondi di seconda fila. Caso mai la conferma del bric-à-brac costruttivo (l’estrema frammentazione) di cui parla il Gadda del 1938: “la questione, è doveroso ammetterlo, si esacerba nella spezzettatura della proprietà immobiliare, per cui l’uno possiede un angolo, e l’altro un cuneo, e il terzo una fetta e il quarto una listarella sottile, sottile, del prezioso terreno su cui opera …”; e a volte la facciata come misero espediente: “dividere il mondo in due, nella facciata e nel retro, è l’idea fissa di taluni costruttori milanesi. Il lustro della facciata, l’abominazione del retro. Ma Dio ci vede da tutte le parti: e noi stessi, umili e transeunti creature, dobbiamo concedere un occhio, talora, ai retroscena del mondo, anche non volerlo …”.

E poi piazza Gae Aulenti: intanto, battuta per battuta, se si dice che la Gae si darebbe indignata per quella attribuzione, magari invece ella si sarebbe vergognata di prendere nome in Cadorna, dove ha messo in piazza (figurativamente) i binari del treno piuttosto che la hall della stazione, come sarebbe stato forse più giusto. Quell’abnorme piazza alla Stazione Garibaldi, come la chiama Caruso (tralascio la restante parte del percorso da Corso Como, che in effetti non brilla) ha, per lui stesso, “un successo popolare straordinario”. Ora non so se abbia assecondato o meno, come dice, “i sentimenti antiurbani e antimilanesi”; ma se ha avuto successo, chapeau! Mi pare che meno successo l’abbia avuto quella sorta di “diamante” che invece chiude,in faccia alla chiesa di San Gioachimo, l’infilata di Porta nuova. Cioè, per dirla con don Alfonso in Così fan tutte “v’han delle differenze in ogni cosa”. E io credo che bisogna guardare a queste differenze, perché ogni volta in esse viene sollecitata la nostra comprensione: e l’idea di città deve assumerle come contraddizioni positive, come dato reale nel nostro campo di lavoro: una città complessa e nuova, che certo non è più quella indicata dal Beruto e, peraltro, contraddetta da subito dalla Commissione Pirelli e pochi decenni dopo dal Piano Albertini del 1936.

In tutto ciò, riconosco che nella seconda parte del suo articolo, Caruso entra proprio in queste contraddizioni, riportandole però tutte al dato morfologico, sia pure ritenendolo indotto dal “programma liberista e provinciale”. Ma è proprio qui che mi sembra che Caruso tragga non giuste conseguenze: mi pare che riduca l’idea a un modello, nel quale, ovviamente, non possono entrare di diritto i sentimenti antiurbani. Ma un modello, in una geografia che ha già consumato tutto il suolo possibile, finisce col diventare una utopia, un luogo che non c’è, o una esortazione velleitaria; e la contraddizione si apre da un’altra parte, e si chiude sull’ambiguità tra tensione ideale e rappel à l’ordre.

A me sembra evidente che ogni idea di città non nasca – o non possa più nascere, visti gli esiti di una storia non progressiva – da una immaginazione, da un modello; e nemmeno, come dice il nostro, da una visione: “c’è bisogno di una visione che illumini la prospettiva”. No, credo sia il contrario: ogni visione non può che essere ricondotta, oggi, nel concreto in cui ci troviamo, al dominio conoscitivo, alla capacità di leggere e rileggere – come una nuova lingua – una geografia metropolitana radicalmente mutata, con centralità nuove, con la convivenza stretta e contraddittoria di elementi urbani e antiurbani.

Non basta, Alberto, dire che la Bicocca rappresenta la “consapevolezza che la città vive di regole” e che pure queste regole impoveriscono il rapporto tra la strada e gli spazi interni. Occorre, ex post, vedere la Bicocca per quello che è, cioè un progetto, comunque giudicabile, svolto all’interno di una politica degli interventi che vedeva il confine municipale come un limite, che vedeva la Falk come un altro mondo (periurbano? come dici).

La crisi della cultura del progetto – sulla quale con evidenza non si può che concordare – non la si affronta se non si considera la città come un fatto positivo e continuo, come “fatto umano per eccellenza”, nel bene e nel male, privo di confini che non siano quelli del consorzio civile.

Appunto la politica degli interventi: che viene prima di una partecipata e condivisibile visione, entro la quale la cultura del progetto può trovare spazi e libertà. La “visione” a suo tempo affermatasi, che Milano dovesse avere, con ritardo, i suoi grattacieli, come segno di una povera, anche se aggressiva, globalizzazione, ha lasciato ingiudicata e lacunosa la politica degli interventi per le aree dismesse. E anche Rogoredo, senza torri, non è forse in parte una “occasione mancata”? … Non la belle mura e i porti, ma l’occasione che il cittadino sa cogliere ….

Allora, dentro le questioni che Caruso ha avuto il merito di porre, proverei a invertire i termini della sua conclusione: non “una visione che illumini la prospettiva”, ma una prospettiva (politica degli interventi) che illumini la visione. Visione che insieme (civitas) dobbiamo (pazientemente) costruire, nel farsi della città; la quale non può partire dalle presunte regole urbane (cui si è “attentato”). Anche se certamente, quelle che valgono – regole o meglio principi – le ritroverà, nella buona politica.

 

Cristoforo Bono



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