16 aprile 2014

sipario – “SACCARINA”: EVOLUZIONE URBANA A TEATRO


 

INTERVISTA A DAVIDE CARNEVALI

Dal 15 aprile sarai in scena al Franco Parenti con Saccarina. È un testo che hai scritto anni fa, che nel 2007 è stato finalista al Premio Riccione ma che finora non era mai stato rappresentato. Come è nato questo progetto?
Io conoscevo Silvia Giulia Mendola da tanti anni, perché nel 2002 eravamo tra le persone che avevano aperto una piccola sala a Milano, che si chiamava Scalo 10, intorno a cui si era radunato un piccolo gruppo di attori e registi che venivano dalla scuola del Teatro Libero e dei Filodrammatici, e dove noi mettevamo in scena le nostre cose. Quindi avevamo già lavorato insieme. Due anni fa mi ha chiesto se avevo un testo per lei e le ho dato Saccarina, che non era mai stato messo in scena. Gliel’ho fatto leggere e le è piaciuto.

sipario15FBLa versione che va in scena è la stessa del 2007 o hai cambiato qualcosa? Ho aggiornato semplicemente alcune cose, riferimenti al contesto politico milanese, soprattutto per quanto riguarda l’Expo. L’opera già affrontava il discorso sull’evoluzione urbana di una città, su come viene concepita, se a misura d’uomo oppure no. Così il tema dell’Expo in realtà si è inserito perfettamente su questa base già presente nella versione originale.

Da cosa nascono di solito i tuoi testi? Da cosa parti a scrivere? Saccarina è nato in un periodo in cui stavo studiando, mi stavo formando come drammaturgo a Barcellona, alla Sala Beckett, per cui come struttura e come modalità di raccontare una storia è un testo figlio di quei corsi che stavo facendo: impianto realista, ambientazione urbana, plot semplice e un po’ intimista, senza grandi giochi formali. Poi è una storia che parla di attori, perché in quel momento io vivevo quel mondo lì, venivo appunto dall’esperienza di Scalo 10. Si tratta di una storia che io ho vissuto, perché, pur non essendo attore, ero stato a stretto contatto con gli attori. Poi volevo raccontare una storia su Milano, sulla realtà che mi stava intorno. È un testo molto in piccolo, molto autoreferenziale, poco immaginativo rispetto ad altri che ho scritto dopo. Nasce da un’esigenza più viscerale e meno teorica.

E invece i testi successivi? Variazioni sul modello di Krapelin e Sweet Home Europa, ad esempio? Come è cambiato il tuo approccio e il tuo immaginario? Beh, questi sono testi che partono da un problema formale, cioè come spiegare determinate tematiche attraverso determinate forme. Nascono più a partire dalla mia ricerca teorica, dal dottorato in teoria del teatro. Per cui il mio problema principale è un altro: parlare sì di temi attuali, dell’Europa ad esempio, e cercare dei principi formali che fossero adatti a spiegare i contenuti che stavo trattando, e il cui impiego non fosse gratuito ma giustificabile proprio da quei contenuti. Per cui, ad esempio, se parlo del problema della ricostruzione della storia, lo faccio presentando un testo composto da frammenti di storia che sono problematici da ricostruire. Anche il fatto di allontanarmi sempre di più dal lavoro pratico in teatro mi ha aiutato a lasciare libera l’immaginazione. Perché quando stavo a Scalo 10 la limitatezza delle risorse economiche, tecniche e di persone limitavano molto la mia scrittura: non avrei mai immaginato di far entrare in scena un coniglio di due metri o un orso bruno. Mentre stando lontano posso immaginare tutto e questo mi lascia molto più libero nel momento di scrivere.

E i nuovi testi? Quelli che stai scrivendo ora? Dipende dal tipo di testo, perché ad esempio Ritratto di donna araba che guarda il mare nasce dall’esigenza di tornare un po’ indietro a una struttura drammatica più classica, e di esplorare il tema della tragedia, della possibilità della tragedia contemporanea. Questo sempre rimanendo su tematiche universali, come lo scontro di civiltà e le relazioni interpersonali fra persone di contesti culturali diversi, che poi sono le stesse di Sweet Home Europa. Però il tema di fondo che è sempre presente in tutti i miei testi è il problema del linguaggio, come il linguaggio crea la realtà e come la manipolazione del linguaggio sia essenzialmente una manipolazione della realtà e ne determini la nostra lettura. Raccontando una storia non solo diamo una forma logica alla realtà, ma creiamo la realtà, sempre in modo personale, parziale e arbitrario.

Ti è mai capitato di dover scrivere su commissione cose che non avevi voglia di scrivere? Generalmente non scrivo su commissione, ma anche quando ho avuto richieste da parte di festival, come Quartieri dell’Arte a Viterbo, non erano mai limitanti, mi lasciavano sempre molta libertà. Ora ho una commissione del Teatre Nacional de Catalunya per il 2015, a partire di Pasolini, e una della Münchner Biennale per il 2016, su un progetto che unisce teatro e musica, ma in entrambi i casi i progetti sono partiti dopo essere stato ampiamente consultato. Penso di aver sempre scritto cose che avevo voglia di scrivere, poi ho cercato di farle girare e di farle coincidere con le esigenze di persone che volevano mettere in scena qualcosa di mio.

Com’è il tuo rapporto con i registi? Di solito segui le prove? Per questioni pratiche mi è quasi impossibile seguire le prove. A volte i miei testi sono messi in scena in diversi paesi e quindi non riuscirei a stare dietro a tutto. Parlo volentieri con i registi, ma lascio sempre decidere a loro se hanno voglia di confrontarsi con l’autore o no. In Germania ad esempio è molto più normale che sia un Dramaturg a lavorare sul testo, quindi l’autore resta sempre un po’ appartato. Invece in Italia generalmente è il regista a fare anche la Dramaturgie dell’opera, quindi mi è capitato molto di più di essere consultato da registi o attori. Io sono molto aperto su queste cose, ma sono consapevole che l’autore dello spettacolo è il regista, non il drammaturgo, quindi spetta a lui decidere. Poi mi è capitato anche di vedere cose che non mi sono piaciute, però a quel punto quando decidi di non fare tu la regia non puoi neanche lamentarti.

Tu vivi all’estero, è questa sarà la domanda che ti fanno tutti: quali sono secondo te le principali differenza fra la realtà teatrale italiana e quella tedesca, spagnola o francese? È poco comparabile. Io non passo tanto tempo in Italia, però adesso che ci sono stato un mese, anche per seguire certi progetti che si stavano prospettando per le stagioni future, continuo a pensare che sia un caos. L’impressione (ma è un eufemismo) è che le scelte, soprattutto delle grandi strutture produttive pubbliche, non siano operate solamente secondo criteri artistici. Ci sono una serie di questioni politiche che dettano certe condizioni, per cui se cambia un direttore, o un elemento politico che ha certe influenze sul teatro a livello amministrativo, cambiano le decisioni. Così i progetti possono apparire e scomparire magicamente nell’arco di una giornata. Questo sinceramente negli altri paesi non mi è capitato. Nel senso che quando qualcuno ha detto “metto in scena il tuo testo”, poi l’ha messo in scena. Con un processo naturale di produzione e ricerca di fondi, ma in maniera molto semplice, in realtà. Anche con i pagamenti rispetto ai diritti d’autore è molto più semplice. Sono mondi completamente differenti. Sto dicendo cose ovvie e che sanno tutti. Lo so.

E riguardo l’interesse per la nuova drammaturgia? Dipende. In Germania c’è una tradizione drammaturgica molto più forte che in Italia. In Argentina anche. In Francia un po’ più che da noi. Nessun posto è il paradiso, eh. Però secondo me l’Italia non è un buon posto per un autore di teatro. Così come un architetto se vuole studiare architettura viene in Italia, un autore dovrebbe andare da un’altra parte per inserirsi in una tradizione interessante: in Germania, Gran Bretagna o in Argentina. Non dico che dobbiamo abbandonare tutti questo paese. Però non ci si può lavorare se non ci sono le condizioni minime che ti garantiscano che quello dell’autore di teatro sia considerato un lavoro. Io continuo a scrivere in italiano e sono contento che quello che scrivo venga messo in scena qui, ma l’Italia non sarà mai il mio primo punto di riferimento, se voglio pensare che il mio sia un lavoro. In ogni caso la tristezza e la delusione dei drammaturghi non è poi così grave, più grave è la tristezza e la delusione degli spettatori.

Secondo te la crisi economica può essere un’occasione di rinnovamento? Sì, può essere un ottimo punto di svolta. È quello che sta avvenendo in Spagna, dove stanno nascendo nuovi modi di fare teatro, nuove modalità di produzioni e di incontrare il pubblico, che è poi quello che era successo in Argentina dopo il 2001. Lo fai con meno soldi ma con più passione, e soprattutto lo fai se diventa una necessità. Anche qui sta succedendo. Guarda il Valle, per esempio, o il “teatro per casa”. La crisi ti apre degli spazi e quindi fa sì che i teatri, perdendo potere economico, perdano anche potere politico, e questo è sempre buono. In ogni caso deve essere ripensata urgentemente la modalità di incontro con il pubblico, l’uso degli spazi, il sistema (e la qualità) dell’offerta e la politica dei prezzi. E la crisi sicuramente ti dà questa opportunità. Altrimenti il teatro muore per disinteresse da parte del pubblico, della comunità. E in quel caso è giusto che muoia.

Emauele Aldrovandi

 

 

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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