9 aprile 2014

COSTRUIRE IL NUOVO IN CITTÀ SENZA UN’IDEA DI CITTÀ


Nel varco della cortina costruita di via Maestri Campionesi, un nuovo grande fabbricato residenziale viene eretto perpendicolare alla strada, sconvolgendo la regola elementare che ha dettato la costruzione della città da più di cento anni. Oltre alla rottura dell’allineamento, l’effetto è quello del disvelamento pubblico dei fronti interni della cortina preesistente, fronti che non sono stati concepiti per essere visti dalla strada. Una forma di violenza urbana, di impudica lettura di ballatoi e balconi di cucine e stanze da letto, di fronti spogli e intimi, finora protetti dallo sguardo pubblico, diversamente dal decoro di quelli esterni progettati per partecipare al paesaggio stradale. Questo è forse l’ultimo dei molti esempi di sostituzione che sconvolge l’unità degli allineamenti del piano Beruto, che conferiscono l’aspetto ordinato e riconoscibile di tanta parte della città.

02caruso14FBLa necessità di conservare gli allineamenti non deriva necessariamente da un concetto conservatore della città. L’esempio dell’ampliamento della Bocconi in via Bligny è il caso più eloquente nel quale il rispetto della regola dell’allineamento sulla circonvallazione non ha impedito, anzi ha fortemente sollecitato, l’invenzione morfologica e la formazione di spazi urbani di grande novità. E anche in piazza Carlo Erba, la conferma dell’isolato prevista dal progetto in costruzione di Peter Eisenmann gli consente di reinterpretarlo, deformando l’allineamento per realizzare una poderosa e urbanissima testata su via Pascoli.

La tendenza in atto in numerosi nuovi interventi, in tutta la città, è distruttiva rispetto a ogni forma di ordine condiviso. Il cosiddetto sprawl, la diffusione insediativa, che caratterizza il territorio periurbano è entrato nella città consolidata e sta minando le sue forme. Il tema su cui è necessario riflettere è quello della debolezza della cultura urbana, e della cultura politica, senza il supporto della quale nessuna azione è possibile. E mentre in altre città europee hanno successo le politiche dirette a promuovere il ritorno in città, qui la condizione si aggrava ulteriormente perché la diffusione insediativa, e la subcultura immobiliare e progettuale che la alimenta e riproduce, si attiva anche all’interno della città, nei quartieri che pensavamo duri, resistenti, baluardi rispetto alle malate trasformazioni diffusive che transitano all’esterno, nell’hinterland.

La grande occasione di rinnovo urbano, di innesto di nuovi pezzi di città funzionanti, urbanisticamente e socialmente integrati, di soluzioni esemplari rispetto alle questioni più critiche, erano i vuoti postbellici e soprattutto quelli delle aree industriali dismesse, ma l’occasione sta andando persa.

Pensiamo al caso più eclatante, quello di Garibaldi – Repubblica, e al disastro provocato da un programma che introduce grandi quantità edificate lasciando irrisolti i temi progettuali di relazione con la città esistente. La relazione tra l’asse interrotto di corso Garibaldi – corso Como e il sagrato della stazione di porta Garibaldi era il più importante tra i numerosi temi progettuali di quest’area. Il tema è ancora irrisolto, ed è compromesso da nuove costruzioni che la città dovrà subire per un altro secolo. Con una scelta azzardata quanto immotivata, il tracciato di corso Como è stato interrotto da un edificio improbabile, un edificio balneare pieno di balconcini e terrazze coperte da tettoie di legno, che invita il pedone a piegare e a salire, tra due cortine di un villaggio turistico mediterraneo, per poi approdare nella abnorme piazza Gae Aulenti. (Ma nessuno è stato capace di confidare al Sindaco Pisapia il dubbio che l’Aulenti avrebbe accolto la denominazione come un affronto e non come un onore?).

Uno spazio in quota, introverso, che nega il piano della città e ogni relazione con gli edifici preesistenti, all’ombra di volumi dalla forma curvilinea altrettanto immotivata, che hanno modificato per sempre il profilo della città, e dal quale si può transitare verso la stazione scendendo una quadrupla rampa pedonale e mobile larga più di 40 metri, che sbarca su un marciapiede. Dal marciapiede si deve poi attraversare la strada grazie a un ordinario passaggio regolato da semaforo per accedere al piazzale ribassato della stazione, che rimane disordinato e bisognoso di un progetto, quale è sempre stato. Chi poi volesse evitare la deviazione provocata sul lato destro di corso Como dall’edificio balneare che si protende a interrompere l’allineamento storico, e volesse comunque proseguire, può farlo, per raggiungere il semaforo, attraverso un sentiero che risale e discende una piccola collina verde, inventata con la determinata e perversa intenzione di far dimenticare per qualche minuto al passante in quale città vive.

Il fantasioso percorso e la piazza Gae Aulenti hanno un successo popolare straordinario. Nei giorni di festa sono pieni di famiglie e bambini. La libreria Feltrinelli, il negozio Muji e il supermercato Esselunga, recentemente insediati nella piazza, contribuiscono al successo del luogo. La ragione del successo risiede proprio nell’avere assecondato i sentimenti antiurbani e antimilanesi: si sale in un luogo diverso, separato, dove si possono rimuovere le usuali sensazioni della strada milanese – l’asfalto e il traffico -, c’è un grande specchio d’acqua e ci si sente in vacanza, fuori da Milano.

Il problema non è la quantità edificata, quest’area ha un’accessibilità straordinaria, di livello regionale. Il problema è la cultura progettuale che l’ha concepita, che non ha voluto capire Milano e non ha risolto le questioni che era necessario risolvere perché la nuova edificazione entrasse a far parte della città. Si è persa l’occasione di progettare un nuovo luogo cittadino, all’intersezione tra un asse radiale storico che collega il Cordusio con la periferia e una stazione ferroviaria e metropolitana importante. Perché a chi esce dalla stazione deve essere negato di vedere la prospettiva aperta dell’asse storico, deve essere negato di capire da quale parte è il centro della città, di orizzontarsi?

La città è un sistema complesso di relazioni, alcune chiare e funzionanti, altre più deboli, inceppate da scelte incompiute o contradditorie: se in occasione dei nuovi interventi di sostituzione non si costruiscono le condizioni spaziali che consentano la riattivazione di queste ultime, allora si accumulano parti incoerenti e si riduce, si perde il carattere della città costruito lentamente nel corso del tempo.

Le parti significative della città, quelle che formano e rafforzano il suo carattere, sono quelle determinate dalla necessità. Quelle la cui esistenza risolve questioni altrimenti irrisolte, e le risolve con i mezzi tecnici, ed espressivi, più semplici. Si può affermare che l’ascesa verso piazza Gae Aulenti è motivata dall’esigenza di portare i pedoni alla quota utile per transitare verso l’Isola, attraversando il nuovo spazio verde sotto il quale scorre il traffico est-ovest dal Monumentale a piazza Repubblica. Ma, ammesso che sia dotato di qualche motivazione realizzare colline artificiali in mezzo a Milano, è una ragione sufficiente per interrompere visualmente il tracciato di corso Como, con un gesto di questo rilievo? In qualsiasi villaggio della Svizzera una modificazione di tale portata del paesaggio cittadino sarebbe stata discussa da tutta la città e poi sottoposta a referendum popolare.

La pedonalità è una politica importante, che ha trasformato il modo di progettare e riprogettare gli spazi cittadini conferendo loro valori d’uso straordinari, ma la sua positività non può comportare libera licenza di qualsivoglia bizzarria morfologica. Citylife è un’area tutta pedonale, e, sulla carta, i suoi tracciati sono allineati, sono la continuazione delle strade cittadine esistenti, un tempo interrotte dal recinto della Fiera. Ma ciò non produce alcun effetto di integrazione tra la città e il recinto virtuale, che rimane profondamente separato dal contesto, perché la continuità tra tracciati utilizzati da mezzi e utenti diversi è una forma vuota, e la morfologia del nuovo insediamento si contrappone al contesto costruito negando ogni possibile relazione, cosicché non rimane che la rete metropolitana a unirla alla città.

A ciò si aggiunga che gli edifici residenziali sono collocati sul terreno come le immobiliari costruiscono nelle zone di espansione esterna di Cernusco o di Cornaredo, con i fabbricati arretrati rispetto alle recinzioni, senza relazione diretta con i tracciati. Citylife è un esempio eloquente di come l’estensione della pedonalità senza un progetto complessivamente finalizzato all’integrazione, possa separare la città anziché unirla, producendo insediamenti periferici nelle aree centrali della città.

La noiosa Bicocca, in questo scenario di progetti che attentano alla città, rappresenta una eccezionale prova di resistenza delle idee, di consapevolezza che la città vive di regole, dentro le quali la progettualità sapiente può produrre edifici eccellenti come quello della Deutsche Bank di Gino Valle, con i suoi spazi aperti irregolari e disallineati. Ma anche alla Bicocca, che pure è un pezzo di città disegnato con la determinata e colta volontà di fare città, la separazione tra percorsi carrai e percorsi pedonali e la realizzazione degli spazi pubblici interni agli isolati, impoveriscono la strada, verso la quale sono rivolti fronti chiusi e muti.

La subcultura progettuale che ha determinato il paesaggio della città diffusa lombarda entra in città, e la investe con le medesime logiche immobiliari. I nuovi edifici introdotti nelle cortine edificate della città consolidata hanno quasi sempre i fronti adorni di numerosi balconi, inutilizzati dagli utenti, ma venduti al 50% del prezzo al metro quadro dell’alloggio. Così il carattere di molte strade milanesi sta trasformandosi, non in un nuovo e diverso carattere, ma in città senza qualità.

Da lungo tempo la cultura politica è priva di un’idea di città. Ormai diversi anni fa Massimo Cacciari parlava, a proposito di Venezia e attualizzando un concetto elaborato ancor prima da Joseph Rykwert, della necessità di un’idea di città, che servisse da riferimento quadro per la formazione di scelte politiche tra loro connesse da una coerenza, e come garanzia di successo delle stesse scelte. Manca un progetto generale del modo di abitare la città, della sua dimensione antropologica, da contrapporre al programma liberista e provinciale di favorire ogni rottura delle regole morfologiche e di imitare le downtown americane con quarant’anni di ritardo.

Il Sindaco Pisapia sta aggiustando gli strappi più gravi e riportando la legalità al centro della gestione amministrativa: è un programma importante, ma non basta. I tagli ai capitoli del bilancio comunale finalizzati a salvare e conferire continuità ai servizi sociali sono una scelta condivisibile, ma senza un’idea di città semplice e chiara, estesa alla dimensione metropolitana, che preveda i concetti e le misure utili a costruire tendenze inverse a quelle autodistruttive in atto, discussa e condivisa dai migliori tra gli attori economici e culturali della città, il futuro appare incerto e insicuro.

È necessario impedire che sia il mercato a determinare la forma della città, è necessario non limitarsi a stabilire procedure amministrative trasparenti e legali per la sua determinazione. C’è bisogno di una visione che illumini la prospettiva, dobbiamo capire e decidere che Milano vogliamo. In mancanza di mezzi finanziari che in tempi brevi consentano di soddisfare in modo importante i bisogni e le attese degli elettori, il consenso bisogna mantenerlo ed estenderlo accompagnando l’azione amministrativa con un’idea forte di futuro, con un impegno straordinario di elaborazione culturale e politica. Altrimenti, la città torna in mano a quelli di prima.

 

Alberto Caruso*

 

* architetto milanese, direttore di Archi, rivista svizzera di architettura, ingegneria e urbanistica.



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