9 aprile 2014

GERARDO D’AMBROSIO. TRADIRNE LA MEMORIA?


Gerardo D’Ambrosio ci ha lasciato. Era tra gli uomini che negli ultimi decenni ci avevano fatto sperare in una Italia diversa ed erano comunque stati capaci di mostrarci un paese offeso ma non ancora piegato dall’illegalità, dalla volgarità, dalla corruzione. Nel ricordarlo, mi viene in mente una definizione semplice: uomo onesto. Uomo onesto di fronte alla legge e ai poteri che la legge gli conferiva, uomo onesto di fronte alle tentazioni della politica, uomo onesto nel compito di difendere la giustizia in una società, che, in una sua parte almeno, ormai maggioritaria, si era da tempo abituata a interpretare i codici secondo un interesse particolare, agevolata da strutture, procedimenti, consuetudini, omertà.

pivetta14FBAlla sua morte, la figlia di un esponente politico del passato ebbe per l’ennesima volta la grazia di denunciarne la presunta tendenziosità in materia di tangenti: avrebbe occultato quelle “rosse”, perseguitando parti politiche diverse dalla sua. Non se ne avrà a male Gerardo D’Ambrosio che possedeva anche la virtù dell’ironia: per un ventennio lo hanno assoldato nel manipolo delle toghe rosse giustizialiste a senso unico, anzi era il “capo delle toghe rosse”. L’insulto metteva e mette in conto il ridicolo per chi lo formulò, ma anche idiosincrasia e refrattarietà nei confronti della legge, immoralità, l’assenza di senso civico, persino cecità davanti ai disastri che questo paese è ancora costretto a soffrire. “Un uomo sopra le parti, nonostante i suoi convincimenti politici”, lo ricordava Francesco Saverio Borrelli, una voce autorevole.

Gerardo D’Ambrosio aveva ottantaquattro anni (era nato a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta), era diventato magistrato cinque anni dopo la laurea (a pieni voti nel 1952, alla facoltà di giurisprudenza di Napoli), era diventato cittadino milanese negli anni sessanta quando era entrato a Palazzo di Giustizia, prima Sostituto Procuratore Generale, per otto anni (sostenne l’accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli, condusse le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, tra gli imputati Roberto Calvi), quindi, dal 1989, come Procuratore aggiunto, dirigendo il dipartimento criminalità organizzata e, dal 1991, quello dei reati contro la pubblica amministrazione. Nel 1999 venne nominato Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Milano. Lasciò la magistratura nel 2002, per limiti d’età. Nel 2006 venne eletto senatore nelle file dei Democratici di sinistra.

Lo si poteva incontrare nel suo ufficio dentro Palazzo di Giustizia a Milano. Lo si poteva ascoltare al telefono, per un’intervista. Colpivano subito la sua severità, il suo rigore ma anche la sua eleganza, quei modi raffinati e discreti. Colpivano la disponibilità e quel modo paziente, molto pedagogico, di spiegare a chi l’ascoltava come “stavano le cose”. Magari si ripeteva ma per eccesso di scrupolo: temeva il fraintendimento, l’incomprensione, quando anche la precisione della sua esposizione poteva indurre l’intervistatore a qualche grossolana sintesi. Rivelava, negli ultimi anni, la sua amarezza: amarezza per quanto nel malaffare, nella corruzione, nell’offesa alle istituzioni si era ripetuto, in una sorta di “tangentopoli infinita”, quando mutavano i protagonisti, ma non cambiava l’entità del danno morale ed economico: “Il problema della corruzione- disse di recente – c’è sempre. Se i risultati sono nettamente inferiori al periodo d’oro, quello di Mani Pulite, è solo perché si sono creati gli anticorpi, è stato fatto tesoro dell’esperienza di quegli anni per sottrarsi alle indagini. Non arrivano quasi più input dall’esterno per collaborare alla ricerca della verità”.

Prima di tangentopoli, D’Ambrosio s’era occupato di piazza Fontana e grazie al suo coraggio (e al coraggio e all’obiettività di magistrati come Giancarlo Stiz ed Emilio Alessandrini, assassinato dai terroristi di Prima Linea) si giunse all’incriminazione di Franco Freda e di Giovanni Ventura, alla individuazione quindi di quella matrice fascista della strage (Freda e Ventura erano già stati incriminati per le bombe ai treni dell’estate dello stesso anno). S’era dovuto occupare anche della morte di Giuseppe Pinelli, nella notte che precedette l’arresto di Pietro Valpreda. Non era riuscito a terminare l’inchiesta come avrebbe voluto, interrogando il commissario Calabresi, ultimo teste, ucciso pochi giorni prima l’appuntamento. La conclusione dell’inchiesta (il “malore attivo”) mosse le accuse violente da parte di alcuni ambienti di sinistra. Si dovrebbero invece ricordare i giudizi durissimi che D’Ambrosio, nella sentenza depositata il 27 ottobre 1975, riservò alla polizia e al questore. Citò la famosa conferenza stampa, in via Fatebenefratelli, quando il questore dichiarò: “Era fortemente indiziato”, “Ci aveva fornito un alibi ma questo alibi era completamente caduto”, “Il funzionario e l’ufficiale gli hanno rivolto una ultima contestazione … Poi sono usciti dalla stanza. D’improvviso Giuseppe Pinelli è scattato. Ha spalancato i battenti della finestra socchiusi e si è buttato nel vuoto”… Affermazioni vili e menzognere, scrisse D’Ambrosio, rese perché gradite ai superiori, “strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici”. Gerardo D’Ambrosio non si arrese a un “senso comune” pseudo istituzionale, a un pseudo rispetto di un “potere”, che aveva scelto la strada di un “presunzione di colpevolezza”. Per quanto gli fu possibile difese una persona, per quanto gli fu possibile cercò di restituire dignità e giustizia a una persona, l’ultima vittima di piazza Fontana.

 

Oreste Pivetta



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