26 marzo 2014

“RICOSTRUIRE IL PAESE DIPENDE DA NOI” E IL PROBLEMA DELLA SALUTE


Nel ciclo d’incontri “Ricostruire il paese: dipende da noi”, curato da Vittorio Coda a Milano in Ambrosianeum, Francesco Longo (Bocconi) ha lucidamente analizzato il nostro sistema sanitario. Pochi cenni, rispetto all’analisi di Longo. La nostra spesa sanitaria procapite (a parità di potere d’acquisto, tenuto conto dei livelli nazionali dei prezzi) è di 2.964 $, di cui 2.292 pubblica (3.765 e 2.920 in UE, 27% in più), vale a dire il 9,3% del prodotto interno lordo (10,7). Tra il 2001 e il 2010, la nostra spesa sanitaria procapite totale è aumentata in media del 3,2% (UE 5,4%), quella pubblica del 4% (5,9). Abbiamo perso terreno rispetto all’Europa, specie nella spesa privata.

10gario12FBA carico privato è il 57,3% di spesa per visite specialistiche, il 44,4 per riabilitazione e il 20,9 per accertamenti diagnostici. La divisione degli oneri è evidente: lo Stato paga per accertare se abbiamo un problema di salute; se c’è, per capire come risolverlo spendiamo soprattutto del nostro, in buona misura anche per rimetterci in forma dopo averlo risolto. Ma lo facciamo soprattutto per problemi ai denti (oltre 9 casi su 10), ginecologici e ostetrici (7 su 10), di dieta, di pelle, di occhi (oltre 5 su 10). Problemi, per dir così, di routine. Ma nelle casistiche più complesse, anche le visite specialistiche e la riabilitazione sono soprattutto a carico della spesa pubblica.

La più significativa linea di confine tra spesa privata e pubblica per la salute è forse tracciata dalle badanti (774 mila nella stima IRS 2008) e dai dipendenti del servizio sanitario nazionale (646 mila a dati Ministero della salute 2009). Abbiamo più badanti che addetti, in coerenza col fatto che il 70% della spesa sanitaria è necessaria per il 30% di persone malate croniche, soprattutto anziane e non autosufficienti, che vanno curate non in ospedale, fonte di rischi anche gravi, ma con una corretta somministrazione dei trattamenti, da parte sia degli interessati sia di chi li assiste.

Con esigenze crescenti e risorse calanti, la riorganizzazione dei servizi è affidata al management finanziario, che taglia le spese per i fattori produttivi, e così sempre più allunga le liste di attesa dei pazienti e peggiora le condizioni di lavoro del personale. È la cosiddetta scelta Hiroshima: puoi prendere decisioni dalle conseguenze tragiche concentrandoti sui fattori produttivi (bomba, aereo, equipaggio) e ignorando le persone. I guai altrui si tollerano facilmente, è lo spirito anche del nostro tempo.

Considerato che le specialità più delicate e complesse sono coperte dalla spesa pubblica e che in esse il trattamento di un numero minimo di casi è riconosciuta garanzia di sicurezza e qualità, va da sé che è meglio – anzi, un obbligo – riorganizzare il sistema qualitativamente e quantitativamente. Qualità: ovunque più efficienza e sinergie, e interazione pubblico-privato entro confini ben chiari. E ancora: selezione e valutazione più efficace del top management, potenziamento della gestione operativa del personale, adeguamento dei metodi di prevenzione e cura. Quantità: diminuzione e riqualificazione dell’offerta ospedaliera unitamente al sistematico aumento delle competenze in funzione delle cronicità, delle strutture per pazienti precedentemente spedalizzati, della specialistica ambulatoriale e, infine, della focalizzazione ospedaliera sulle patologie e fasi acute.

Anche nel necessario inquadramento economico della sanità, insomma, il fulcro va spostato dai mezzi ai fini: è la qualità e quantità dei risultati in termini di salute a indicare il migliore utilizzo dei fattori produttivi disponibili, oltre che quanti renderne disponibili nel quadro generale delle scelte di pubblico interesse. È lo stesso falso dilemma del tormentone finanziario. La buona e necessaria gestione economica consiste nell’usare i mezzi (i soldi) per produrre risultati reali. A partire dal top-management, sia in sanità sia in finanza, i criteri di selezione e valutazione sono la competenza e la capacità di dare a tutti, non solo a se stessi, salute e lavoro, rispettivamente.

Nella finanza è in gioco la qualità della nostra vita, nella sanità lo è la nostra stessa vita. “Tutti abbiamo un giorno o l’altro usato la siringa”, dice il presidente di un sindacato medico francese, che vuole restare anonimo, a Laetitia Clavreul (Le Monde, 05/03/2014, p. 10). L’argomento è poco discusso tra i medici, ma parlano i dati. Il 60% dei decessi ha luogo in ospedale e solo il 25,5% a domicilio, anche se l’81% dei francesi dichiara di voler morire a casa. Secondo l’Institut national des études démographiques, nel 2010 circa la metà dei decessi è stata preceduta da una decisione medica suscettibile di accelerare la morte del paziente e, anche se è espressamente proibito dalla legge, nel 3,1% dei casi lo si è fatto volutamente e in un altro 2,5 senza consenso del paziente. In un sondaggio Ipsos 2013 per l’ordine dei medici francesi, 60 medici su cento si sono detti favorevoli all’eutanasia ‘attiva’ e 37 pronti a farlo.

Le parole sono importanti, osserva Clavreul. “Io non uccido, aiuto a morire”, le ha detto il dottor O. : “Può darsi che sia la stessa cosa di fatto, ma non sul piano umano. Non ho mai pensato di aver ucciso qualcuno”. Crinale stretto, dai lati molto ripidi. Lo riconosce il dottor Faroudja, responsabile della sezione etica dell’ordine francese dei medici, ricordando la necessaria fedeltà al giuramento di Ippocrate: “Tra dare la morte e addormentare un paziente, la differenza è sottile”. Ma esiste, conclude Clavreul che come tutti noi, medici inclusi, rischia di trovarsi un giorno dalla parte sbagliata della siringa.

Giuseppe Gario



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