12 marzo 2014

SE VUOI SOLDI NON DARE LAVORO: LA FINANZA DEL TEMPO E QUELLA DEL DENARO


Dichiarata ufficialmente finita ogni volta che la produzione riprende e pazienza per l’occupazione, la crisi si trascina e aggrava. Continuiamo a dare enormi e crescenti quantità di denaro alle banche (a tasso reale nullo o negativo, sogno di famiglie e imprese), fingendo che cada come pioggia su chi lavora o vorrebbe. Purtroppo resta nel bacino finanziario, rimescolato da una ‘finanza ombra’, senza regole, in circuiti informatici al microsecondo, con profitti speculativi senza paragoni.

03_gario_10FBLa crisi finirà quando le banche torneranno a dare credito a imprese e lavoro, obbligate da governi e leggi a scala sovranazionale, perché oggi la finanza globale ha in pegno e in pugno tutti gli Stati, inclusi governo e congresso USA, e dal 2007 trasferisce magicamente su noi cittadini del mondo i costi della sua incompetente avidità. Ora la magia rivela un suo trucco: la Federal Reserve USA, che stampa i dollari, continuerà a fornirli gratis fino alla ripresa dell’occupazione. Se vuoi i soldi, non dare lavoro. Appunto. Oggi solo in Europa c’è la concreta, straordinaria opportunità di fare uno scatto in avanti dandoci un vero governo.

Le lobby finanziano più o meno lecitamente i politici e fanno propaganda: oggi è lo Stato-famiglia che accusa famiglie e disoccupati di non accontentarsi, di non darsi da fare. Non c’è povertà senza colpa, figurarsi ricchezza. Ma così non si va da nessuna parte, tanto meno sul mercato del lavoro e il disoccupato sparisce dalle statistiche, non è nemmeno più un numero. Joseph Stiglitz ha dimostrato la falsità di questa ideologia. Lo Stato-famiglia taglia la spesa, come la famiglia, che però continua a lavorare e guadagnare finché altri spendono, dando lavoro. Nello Stato e in economia invece, i consumi tuoi danno lavoro a me e viceversa; se crollano i consumi, crolla il lavoro, mentre migliaia di miliardi pubblici regalati alla finanza si sterilizzano in carta-moneta, anzi in bites.

Come ogni ideologia, anche questa nasce da interessi particolari che si sostituiscono all’economia reale della reciprocità e dell’equilibrio degli e tra gli interessi, anzitutto quello di una vita decente e dignitosa per tutti, che è poi un diritto. Incolpare i ricchi è pleonastico, perché ci guadagnano, ma il loro ricambio è traumatico, come la storia moderna insegna. Sempre nuovi, i ricchi non imparano.

Oggi è il turno della finanza, ma la crisi ha in sé l’inestimabile potenziale di ricchezza del tempo forzatamente libero di chi forzatamente non lavora, specie dei giovani. Siamo ricchi di tempo, e d’intelligenza, pur se poveri di carta-moneta e bites. La crisi si protrae e il tempo disponibile aumenta, ma l’intelligenza finisce in depressione, angoscia, rivolta. Per non perderla dobbiamo investire il tempo in ciò che i ricchi di turno non fanno, imparare, come conferma il Daily Telegraph del 18 febbraio: gli studenti inglesi upper class sono oggi meno alfabetizzati dei figli dei contadini cinesi. Noi dobbiamo investire nel leggere, scrivere e fare di conto, perché siamo in fondo alle classifiche internazionali di alfabetismo funzionale (sappiamo parole e numeri, ma li usiamo a caso). Il 45,2% di noi italiani 25-65enni ha solo la licenza media (27% in Europa). La scuola primaria è un nostro punto di forza, ma non basta per vivere bene in questo mondo.

Nel primo decennio 2000 gli italiani laureati sono il 36% in più, i lettori il 9%. Leggiamo almeno un libro l’anno in 46 su cento (51,9 donne e 39,7 uomini): gli spagnoli 61,4, i francesi 70, i tedeschi 82. I tedeschi hanno capito prima e meglio di noi la crisi e agito di conseguenza grazie a una cultura diffusa che crea coesione, forma migliori dirigenti anche politici ed elettori più preparati di noi. È il pane quotidiano in un mondo che è ormai la casa di tutti, lo dicono i nostri aggeggi elettronici.

Eppure, come i cinesi, abbiamo dato ben altra prova nel “miracolo economico”, trasferendoci in massa da campagne e Mezzogiorno nelle città industriali del nord, culturalmente molto più distanti delle omologate nazioni oggi. La lingua fu un ostacolo maggiore, ma superato da milioni di persone che lavorando impararono dialetti e gerghi tecnici locali, mentre tutti s’imparava l’italiano in tv investendo tempo e intelligenza. Motivazione e mezzi ci sono anche oggi, maggiori e migliori.

La sicurezza viene solo da università scuole biblioteche teatri case editrici librerie cinema edicole, attività culturali e luoghi e momenti di apprendimento. La rete informa, forse, ma ci si forma solo nell’incontro e confronto personale, in presenza, col tempo necessario. Il futuro dipende da noi, dalla nostra iniziativa anche personale, di piccolo gruppo per imparare a vivere bene anche dal resto del mondo, che più di noi sa e agisce. È legittima difesa culturale. Come funziona? Una bimba inglese salvò se stessa, familiari e ospiti dell’hotel avendo imparato a scuola che cos’è lo tsunami. Gli italiani del “miracolo economico”, nonostante stragi e assassinii, realizzarono istruzione e salute per tutti, tutela per i deboli, previdenza per gli anziani. Ci sono ancora: giorni fa sul tram a Milano, con un accenno di cadenza veneta due nonne si confidavano la vera delusione avuta dalle nipoti che rinunciano all’università, buttando via il proprio potenziale e mangiandosi il grano in erba.

La pancia vuole la sua parte. Nei luoghi e momenti di apprendimento si può condividere il cibo, come nelle librerie-café, con la differenza che qui ognuno porta qualcosa (altrove lo si fa da anni). Dalla crisi si esce solo insieme qui e ora, mente e pancia. Persino gli svizzeri ticinesi ci chiudono le scappatoie personali. La crisi ci ridà ciò che gli ultimi vent’anni ci hanno tolto: la motivazione e il tempo per imparare, metterci in pari col mondo e la vita. A Milano le iniziative sono molte, anche se invisibili. A Napoli anche, e in Italia. Qui il futuro è già cominciato per chi vi investe tempo.

La finanza del tempo ha più valore di quella del denaro circolante e molto più della finanza araba fenice, che c’è, ma non si sa dove metta i nostri soldi.

Giuseppe Gario



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