5 marzo 2014

ARREDO URBANO E SPAZIO PUBBLICO: TROPPI ATTORI SENZA REGIA


Ho avuto l’occasione di essere membro della prima Commissione per il paesaggio del Comune di Milano, presieduta da Pierluigi Nicolin, e presidente della seconda. In quattro anni abbiamo esaminato alcune migliaia di progetti, principalmente relativi all’edificazione: nuovi edifici – addirittura interi quartieri- ma soprattutto interventi più modesti e tanti, troppi, sottotetti e piani-casa. In un articolo in uscita su Urbanistica ho provato a trarre alcune incerte conclusioni a partire da questa esperienza, privilegiando il punto di vista della qualità del costruito.

06mazzoleni09FBIn molti casi abbiamo però espresso pareri anche su progetti di spazio pubblico: opere di urbanizzazione dei nuovi interventi, da un lato, ma anche progetti più minuti, quando rientrano nei molti ambiti variamente vincolati della nostra città. Riporterò qui alcuni pensieri maturati osservando questi progetti: quanto di corretto potrà esserci nei ragionamenti che seguono si deve in gran parte alle interessanti discussioni che ho avuto il privilegio di intrattenere in questi anni con i colleghi commissari, mentre strafalcioni e bizzarrie sono di mia esclusiva responsabilità.

I progetti di spazio pubblico esaminati negli anni sono stati molti e di livelli qualitativi molto diversi. Verrebbe però da notare come i casi più convincenti tendessero ad avere motivazioni contingenti: bravi progettisti (interni o esterni all’Amministrazione), committenti oculati, occasioni particolarmente felici. La sensazione, invece, è che le maggiori criticità avessero origine sistemica: la convivenza sul suolo pubblico di troppi attori (poco coordinati tra loro), il sovrapporsi delle norme e le loro conseguenze spesso irragionevoli, le ragioni economiche (di manutenzione, più che di realizzazione), la rigidità della macchina burocratica, lo scarso uso di risorse progettuali adeguate. Un quadro, in generale, non rassicurante, non solo sul presente, che conosciamo, ma anche sul prossimo futuro, degli spazi pubblici della città.

Da quello che ho potuto osservare, credo di poter dire che l’Amministrazione milanese sta facendo molto e in molte direzioni per affrontare il problema. Razionalizzando, con importantissimi investimenti, l’illuminazione pubblica, come già si è detto in queste pagine. Inducendo gli operatori privati a farsi carico di porzioni anche vaste di spazio pubblico, in uno scambio più equo tra la città e chi ne trae vantaggio. Costruendo percorsi condivisi e partecipati nel disegno degli spazi, migliore premessa a un loro uso corretto nel tempo. Osservando i nuovi usi e adeguando a essi ampie porzioni della nostra città. Tutto questo, peraltro, in un momento molto difficile per le finanze di tutti gli enti locali.

Nonostante gli encomiabili sforzi, rimangono però attuali le problematiche descritte negli interventi che si sono susseguiti su ArcipelagoMilano, tanto negli spazi pubblici esistenti quanto in molti di quelli progettati. La più evidente è quella relativa all’eccesso e alla ridondanza degli oggetti presenti nello spazio e al loro faticoso coordinamento e disposizione. Questo forse anche per la difficoltà di trovare un approccio corretto al progetto degli spazi pubblici e, soprattutto, degli oggetti che li popolano: in definitiva del loro arredo.

Non sono mancate, nel ricco dibattito su queste pagine, le critiche – anche aspre – al termine “arredo urbano”. Le condivido ampiamente. Tra le molte, sceglierei però quella “riabilitativa” di Pierluigi Nicolin che, con Carlo Scarpa, ci incita, tornando alle origini della parola arredo, ad “aver cura” e a “provvedere del necessario” nel nostro farci carico dello spazio pubblico urbano. Lavorando soprattutto per sottrazione.

Provando a radicalizzare questo punto di vista, verrebbe da fare una osservazione. Oggi si chiede troppo, credo, all’arredo urbano. Si chiede a sfilze infinite di paletti (le famigerate “parigine”) di impedire il parcheggio selvaggio; si chiede a castellane, dossi e gimcane di rallentare la corsa dei nostri bolidi; si chiede a cestini e cassonetti di farsi carico dei nostri prodotti di scarto. Si chiede a dehors sempre più ingombranti di supplire alla nostra tramontata capacità di goderci le stagioni. Si chiede a improbabili oggetti in stile di rinfrancare la nostra incerta identità. Si chiede a orde di cartelli di ogni foggia e colore di ricordarci le molte cose che, con ogni evidenza, non dovremmo fare in città. Si chiede a materiali pregiati e costosi di salvare le periferie da troppo tempo abbandonate. Si chiede a modesti alberelli, risicate aiuolette e maldestre fioriere di compensare la congenita mancanza di verde di Milano.

In sostanza, si chiede a poveri oggetti inanimati di farsi carico delle fatiche del nostro stare in città e dalla nostra crescente incapacità di usarne gli spazi. Un cosa, mi pare, poco ragionevole.

Forse occorrerebbe ripartire da qui, dagli abitanti, da noi: dai nostri valori e dalle pratiche che ne discendono. Educandoci a guardare agli spazi pubblici della città come al bene comune per antonomasia dei cittadini, da preservare prima di tutto attraverso pratiche corrette e rispettose. Si potrebbe avviare in questo modo l’indispensabile opera di alleggerimento dell’apparato di segni che affollano i nostri spazi pubblici eliminando per primi i molti oggetti utili solo a impedire comportamenti inadeguati: questo già basterebbe, credo, a migliorare radicalmente l’aspetto delle nostre strade e delle nostre piazze. E lascerebbe lo spazio per meglio disporre ciò che davvero necessitiamo.

Continuando a concederci, quando è il caso e se se ne hanno le risorse, la soddisfazione di nuovi, qualitativi interventi: praticando il progetto di suolo caro a Secchi e richiamato in questo dibattito da Gregotti e Battisti (che ha lasciato in città alcuni degli esempi più convincenti di spazi pubblici degli ultimi anni), ma anche attraverso progetti innovativi e di rottura (Luciano Crespi ci ricorda come questo sia normale nelle città europee, dove spesso è normale anche, aggiungo io, che vi si arrivi con concorsi pubblici di progettazione, aperti e inclusivi). E lasciando alla città la libertà di interpretarsi: con gli usi temporanei, istituzionali o spontanei, con le pratiche reali, tradizionali o multietniche, con Pao che sovrascrive Mari.

Partendo però da una città che costruisce la qualità dei suoi spazi pubblici diffusi a partire dai suoi valori condivisi. Verrebbe da dire: dalla sua urbanità.

 

Paolo Mazzoleni

 

IL DIBATTITO SULL’ARREDO URBANO 

Vittorio Gregotti ARREDO URBANO NO. PROGETTO DI SUOLO SÌ

Pier Luigi Nicolin  SE “ARREDO” URBANO FOSSE UN NEOLOGISMO PER SOTTRAZIONE

Giovanna Franco Repellini ARREDO URBANO: PER L’EXPO MILANO DOVRÀ ESSERE MAGNIFICA

Luciano Crespi ARREDO URBANO O “INTERNI URBANI”?

Mario Bisson ARREDO URBANO: IL TEMPO E IL LUOGO NEL PROGETTO

Carlo Tognoli ARREDO URBANO: AVERE CURA DELLA CITTÀ

Beniamino Saibene (esterni) DALL’ARREDO URBANO ALL’ARREDO UMANO: PUBLIC DESIGN

Guya Bertelli, Michele Roda Pasquale Mei  ARREDO URBANO: SPAZI PUBBLICI E LUOGHI CONDIVISI

Marianella Sclavi ARREDO URBANO, SPAZI PUBBLICI E DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA

Marco Romano ARREDO URBANO: L’INERZIA NELLE PICCOLE COSE. E NELLE GRANDI?

Andreas Kipar MILANO CHE CAMBIA: OLTRE L’ARREDO URBANO

Emilio Battisti L’ARREDO URBANO A MILANO TRA DETTAGLIO E SCENARIO

Gianni Zenoni ARREDO URBANO, ANCORA PIAZZA SAN BABILA!

Renzo Riboldazzi PER LA BELLEZZA DI MILANO L’ARREDO URBANO NON BASTA

Dede Mussato L’ARREDO URBANO E L’ATTENTO PASSANTE

Giovanna Franco Repellini PAESAGGI URBANI E GROVIGLI BUROCRATICI



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