5 marzo 2014

sipario – ALBERTO OLIVA all’OUT OFF con IL GIOCATORE


 

TEATRO OGGI: INTERVISTA AD ALBERTO OLIVA

Nel 2014 sei già stato in scena con due spettacoli al Litta e con uno al Libero, e dal 12 al 30 marzo sarai all’Out Off con Il giocatore. Se continui con questo ritmo a fine anno avrai stabilito un record. Come nascono i tuoi spettacoli? Non mi piace stare fermo. Mi piace fare tanto, mettere in gioco il più possibile, quindi i progetti nascono dalla mia voglia di fare. Poi a volte un progetto lo puoi far partire da zero, controllando tutte le variabili, altre invece incontri una produzione o una commissione, che può essere più o meno vincolante. Nel caso della trilogia di classici che abbiamo fatto a Ivrea, gli autori sono stati scelti dal Teatro di Ivrea e io dal secondo anno ho avuto solo la libertà di scegliere il testo. Devo dire che l’incontro con la committenza a me piace, mi stimola molto perché mi fa conoscere autori e testi che magari non farei di mia iniziativa. La cosa che mi ha stupito di più è successa con Il ventaglio di Goldoni, che io assolutamente non volevo fare, ma poi leggendolo, provando con gli attori, lavorandoci, mi sono innamorato di quel testo, follemente, e adesso sono felicissimo che sia stato quello, perché non l’avrei mai scoperto e mi sarei perso uno degli autori più straordinari che esistono e che può raccontare molto della nostra società senza farlo direttamente. Quest’anno con Pirandello mi sono trovato meno bene, nel senso che a me piace meno Pirandello, però è stato bellissimo il confronto. È un autore che sento più ostico, più lontano da me, quindi l’ho un po’ adattato. Invece Goldoni non l’ho toccato perché, dopo averlo studiato, l’ho trovato perfetto. La nostra generazione spesso vede male l’idea di incontrare una produzione o un committente, viene vissuto come un compromesso con accezione negativa, invece sono opportunità da cui si può provare a ottenere il massimo, e non è vero che si perde libertà. Anzi, è bello incontrare gli altri e aprirsi a un confronto, senza chiudersi nella propria poetica immacolata.

sipario09FBCon Il giocatore invece è stato un percorso diverso? Sì, questo spettacolo porta avanti un progetto su Dostoevskij che io e Mino Manni stiamo facendo da diverso tempo. Abbiamo fatto La confessione da I demoni, Ivan e il diavolo da I fratelli Karamazov e adesso ci buttiamo su un romanzo intero, cioè sull’adattamento di un romanzo preso in tutta la sua trama, anche se poi abbiamo cercato di stringere il fuoco sul protagonista e sul tema del gioco. Lo faremo con Exen Media, che è una casa di produzione di video diretta da Maurizio Losi, un giovane video maker molto stimato all’estero e di conseguenza poco conosciuto in Italia, che ha deciso di inaugurare una produzione teatrale all’interno della Exen, e hanno scelto noi e il progetto Dostoevskij per unire le forze e fare un lavoro insieme. Quindi abbiamo la possibilità di affiancare al nostro lavoro una scenografia multimediale composta appositamente per lo spettacolo, che per il teatro Out Off è adattissima e che secondo me funziona bene per raccontare questo vortice che è il gioco, il perdersi all’interno della tentazione, la roulette, la pallina che gira. Quello che ci piace raccontare è che il protagonista è conteso fra le due tentazioni più forti che possono contendersi l’animo umano: la donna e il gioco d’azzardo, che alla fine dello spettacolo finiscono per essere la stessa cosa. Il giocatore non è lo è solo nel momento in cui gioca, ma è una condizione di vita.

Volendo trovare un percorso poetico nei tuoi primi anni di carriera io vedo una certa propensione per i classici, sia del teatro che della letteratura. Sì, è vero. In questi anni mi sono orientato prevalentemente sui classici. Sempre con un’idea di riscrittura e attualizzazione. A me piace molto cercare di interpretare la nostra società con l’occhio di chi non c’era. Mi piace riprendere i classici per dire qualcosa oggi. Loro mettono le parole, bellissime, e io ci metto la chiave di lettura. Faccio più fatica con i testi contemporanei perché credo che proprio il mestiere del regista sia diverso: il classico esiste già, è lì in libreria e te lo puoi comprare, e quindi sei autorizzato se non obbligato a dire la tua, autorialmente, devi fare il tuo Enrico IV. Mentre invece quando fai il teatro contemporaneo quel testo lì deve venir fuori, non è che puoi permetterti di cambiarlo o interpretarlo quando la gente ancora non lo conosce. Cioè, ci sono di fatto due autori e io credo che lì il regista debba farsi un po’ più indietro, perché l’autore è l’autore del testo. Per questo trovo molto più stimolo nel prendere un classico e farlo parlare all’oggi. Ad esempio quando ho fatto le Baccanti, senza cambiare una parola di Euripide, ho fatto uno spettacolo su Berlusconi e sulla comunicazione di massa.

Com’è secondo te la scena teatrale italiana e in particolare quella milanese? Io credo che ci sia una vitalità pazzesca, che stiamo vivendo uno dei momenti più belli della storia del teatro, però non lo sappiamo. E Milano e l’Italia sono una testimonianza straordinaria di come si può essere sempre negativi e diffidenti nonostante le cose vadano bene. Abbiamo appena vinto l’Oscar, con un film che secondo me è bellissimo, è un capolavoro assoluto, uno dei film più belli che io abbia visto nella mia vita. Negli ultimi due anni l’Italia cinematografica ha vinto tutti i premi più importanti del mondo: L’orso d’oro a Berlino con i fratelli Taviani, Il festival di Venezia con un documentario – bello o brutto chi se ne frega, abbiamo vinto il festival di Venezia – il Golden Globe e l’Oscar con La grande bellezza e Cannes con Reality di Garrone. Abbiamo vinto tutto, in due anni. Possibile che non si possa riconoscere che il cinema italiano è forte nel mondo, è rinato e sta vivendo una nuova primavera? Anche se non ci piacciono i film che hanno vinto, ma chi se ne frega! A me piace solo La grande bellezza, gli altri no, ma chi se ne frega, dovremmo riconoscere che stiamo vivendo un buon momento. La stessa cosa vale per il teatro: sta vivendo una stagione strepitosa, di fermento, di varietà, di ricchezza, di giovani proposte, di spettacoli stupendi, di teatri che aprono, piccoli spazi che cercano di dare modo ai giovani di esprimersi. Milano in particolare, secondo me è piena di teatri con bellissime stagioni. Però noi vediamo solo l’aspetto negativo. Perché è vero che purtroppo istituzionalmente e culturalmente l’Italia è un paese che si piange addosso. Perché se noi valorizzassimo quello che già c’è saremmo alla pari del mondo che tanto invidiamo, Berlino, Londra, eccetera. Sì, le istituzioni sono sorde, ma sono lo specchio di una nostra diffidenza.

Come vorresti che fosse fra venti anni? Vorrei che fosse così ma che tutti ne fossimo contenti.

Emanuele Aldrovandi

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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