26 febbraio 2014

musica – IL BACH DI SCHIFF


 

IL BACH DI SCHIFF

Mi rendo conto che tornare a parlare di Andras Schiff dopo averne criticato con una certa durezza quel ciclo integrale delle Sonate di Beethoven che sta per concludere alla Società del Quartetto (la serata finale, con le magnifiche ultime tre, sarà il prossimo 4 marzo al Conservatorio, e testimonierà il “senso” che il pianista ungherese attribuisce all’intera opera e al suo Autore) potrà sembrare una forma di accanimento, di pregiudizio, diciamo anche di petulanza. Il fatto è che, memore di passati fasti e convinto di ritrovare lo Schiff tanto amato negli anni ’80 e ’90 – non solo per la famosa integrale di Schubert ma anche per l’opera omnia per pianoforte di Bach da lui registrata in quegli anni – mi sono precipitato al concerto di giovedì scorso per riascoltare le Variazioni Goldberg, sempre al Conservatorio ma per le Serate Musicali; mi aspettavo dunque di poter finalmente tessere le lodi del pianista che molti non esitano a definire fra i più importanti di questa epoca (peraltro affollata da scimmiette ammaestrate e mortificata da una diffusa e superficiale tecnicità). Purtroppo non è stato così, mi sono molto annoiato e con me credo anche il pubblico, copiosamente attratto dal nome e dall’evento, che ha dimostrato la sua insofferenza con un liberatorio applauso troppo a ridosso dell’ultimo sol; applauso che ha fatto letteralmente infuriare il pianista, provocatoriamente rimasto con le mani sulla tastiera in attesa che se ne spegnesse il fragore e che tornasse un doveroso e rispettoso silenzio.

musica08FBProverò a spiegare il mio disappunto: ho avuto la sensazione che Schiff si sia faustianamente venduto l’anima a qualche Belzebù in cambio della perfezione tecnica, del rigoroso controllo delle mani, del dominio assoluto della tastiera. “La musica – scrive Hegel citato da Baricco – deve elevare l’anima al di sopra di sé stessa, deve farla librare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di sé stessa“. L’anima in questo caso si è proprio persa, o quantomeno si è sopita, e lui è sempre più glaciale, inespressivo, algido, inossidabile, refrattario a qualsiasi forma di “espressione”.

Eppure nel 1998, in un’intervista rilasciata a Benzing per il Corriere della Sera e riportata nel programma di sala, diceva che le Goldberg “alternano danza, spiritualità, metafisica (sic), tenerezza, dramma e sorriso“, che gli fanno provare “la gioia di essere musicista“, che suscitano in lui l’immagine “di una grande cattedrale gotica“. Dov’era la gioia? E l’emozione davanti la verticalità dell’architettura gotica? Dove sono finiti quegli approcci e quei propositi? Cosa è cambiato in questi sedici anni? Solo un patto luciferino – come quello che immagino – lo può spiegare.

Diceva anche, Schiff, che “non è pensabile suonare Bach senza fede“, che “un ateo non può suonare Bach“. Peccato che nella ponderosa biografia bachiana di Piero Buscaroli (un vero trattato) si dimostri come la religiosità di Bach sia ancora tutta da verificare e come le opere più sentite, meditate e profonde siano quelle “profane” (si pensi ai Concerti, alle Sonate e Partite, al Clavicembalo ben temperato, all’Offerta Musicale, all’Arte della fuga e alle stesse Goldberg); la musica “sacra”, per quanto sublime come le Passioni e le Cantate, è stata scritta soprattutto per dovere di ufficio e per obbligo contrattuale (si pensi alle reprimenda del terribile consiglio comunale di Lipsia al povero Kantor) ed è piena di “taglia e cuci” o, come si direbbe oggi, di “copia e incolla”.

Molti interpreti, anche nelle concettuali e cerebrali Goldberg, sono riusciti far emergere l’anima e a profonderla nella complessità e nell’apparente semplicità bachiana. Non è il caso ovviamente di Glenn Gould, che mi è sempre apparso più fenomeno mediatico e meccanicistico che non esempio positivo di capacità interpretativa o approfondimento culturale; ma ricordo con emozione l’interpretazione che ne diede Bruno Canino nella piccola sala del teatro Fossati qualche anno fa, o quella di Monica Leone che ci deliziò con le Variazioni in una memorabile serata del 2002, nell’aula magna della Bocconi, e poi ancora l’anno scorso, a Palazzo Reale in occasione di Piano City. E ricordo anche il candido Andrea Bacchetti che l’anima di Bach l’ha trovata ed è riuscito a trasmetterla perfino quella sera in cui, al Dal Verme, ebbe il torto gravissimo di saltare le ripetizioni (o ritornelli) obbligatorie e di ridurre così i tempi a metà. Anche Schiff in realtà l’ha ritrovata l’altra sera, ma solo in un paio di occasioni: nella pensosa venticinquesima variazione che, come lui stesso dice, è il “cuore” delle Goldberg, e lasciandosi finalmente andare (ma non troppo, per carità) nel Quodlibet della trentesima che Bach propone come momento di distensione e di sollievo prima della chiusura.

Ma l’evidente dimostrazione della anaffettività dell’esecuzione l’abbiamo avuta nella ripetizione finale della celeberrima Aria con cui l’opera inizia e si conclude. Essa non può e non deve essere una semplice ripetizione, come l’ha proposta Schiff, ma una eco e una reminiscenza del tema sul quale tutta l’opera è costruita e che conclude come un addio, con la nostalgia e il rimpianto del commiato. A differenza della esposizione iniziale, nella ripetizione l’Aria va più sussurrata che declamata tanto che, per eliminare ogni forma di assertività, di norma non se ne eseguono i ritornelli. Credo che Schiff queste cose le sappia benissimo ma voglia dirci: io suono esattamente le note che trovo scritte e non intendo aggiungervi alcuna mia personale interpretazione: quella gliela date voi. Vi sembra giusto?

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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