29 giugno 2009

DOPO LA CRISI, UNO “STATO CONTROLLORE”


L’attuale crisi viene da lontano, da anni di ubriacatura neoliberista durante i quali diversi nostri politici ed economisti, inneggiando al libero mercato, hanno passato leggi che azzeravano ogni forma di cautela e di controllo, applicando il motto “libera volpe in libero pollaio.” I risultati più vistosi sono stati i bond Argentina, Cirio e Parmalat, i derivati rifilati ai Comuni compreso quello di Milano, il tracollo di Alitalia e Air-one, la bolla speculativa in Borsa e dell’edilizia; ne sanno qualcosa moltissimi piccoli investitori del ceto medio. Ebbene gli stessi politici ed economisti che in tempi di vacche grasse volevano libertà d’azione totale, che disprezzavano sbeffeggiandoli quanti si permettevano di parlare di Stato come regolatore del libero mercato e del capitalismo, ora in periodo di magra considerano essenziale l’intervento salvifico del denigrato Stato. Purtroppo si ripete il solito vecchio giochetto di “socializzare le perdite dopo aver privatizzato i profitti, dove a pagare siamo la stragrande maggioranza e a incassare sono in pochissimi.

 

Proprio per evitare il ripetersi in futuro di questa ingiustizia è bene, oltre alla domanda assillante “quando usciremo dalla crisi”, chiedersi anche “come usciremo dalla crisi”, una domanda quest’ultima che si interroga sulla realtà delle cose, sugli errori commessi nel passato e che deve proporre un preciso progetto. Come dice l’economista Marco Vitale: ” usciremo dalla crisi quando si smetterà di perseguire direttamente l’aumento del valore delle azioni in borsa, ma si tornerà a perseguire innanzitutto l’aumento del valore delle imprese; quando il PIL non sarà l’unico metro per valutare il buon andamento dell’economia, dal momento che un’economia che concentra la ricchezza in pochissime mani accrescendo la massa degli esclusi non è una buona economia; quando la legittima aspirazione al profitto verrà dissociata dalle pratiche sociali che fanno dell’uomo il fine e non il mezzo.” Infatti per evitare il ripetersi dell’attuale gravissima crisi sarà necessario andare di là dalle cause prossime, quali la mancanza di controllo accentuata dalla corruzione delle agenzie di rating o la circolazione di massa di derivati e capire che la speculazione è “cattiva economia”.

 

Con Macchiavelli e la sua filosofia basata sul concetto “il fine giustifica i mezzi”, nel XVI secolo l’avarizia e l’avidità considerati vizi e peccati mortali hanno iniziato a essere considerate virtù civiche ed economiche, da qui nasce la dottrina dell’utilitarismo, una cultura in cui il criterio per operare le scelte e prendere le decisioni è l’esclusione di chi “non è utile al fine”. Dell’affermarsi di tale cultura l’economista Zamagni constata: “Oggi il libero mercato si è trasformato in un mercato dell’avidità dove tutto è finalizzato al mero profitto; si è rovesciato il nesso causale tra lavoro e ricchezza dove la produzione di denaro non è più l’attività produttiva, ma la speculazione e la finanza; abbiamo una forte cultura consumistica che considera la felicità dell’uomo proporzionale alla sua utilità e capacità di consumo, dove l’uomo dovrebbe trovare la propria felicità nel rapporto con le cose anziché con le persone; assistiamo alla rottura tra economia di mercato e democrazia con la creazione di società in cui la separazione tra ricchi e poveri è sempre più ampia e drammatica, una condizione che l’Occidente sta sperimentando da diversi anni.”

Infatti il Rapporto OECD dell’Ottobre 2008 ci informa che la distanza tra ricchi e poveri è aumentata sensibilmente e l’Italia è seconda fra i paesi sviluppati, dopo gli Stati Uniti, in questa non invidiabile graduatoria. Questa crisi ha chiaramente messo in luce che la famosa “società dei due terzi” in cui la maggioranza era stabilizzata nel benessere, ora non c’è più.

Lo stesso Papa Giovanni Paolo II nel 2004 denunciava come: ” Una società che crea spazio solo per gli efficienti sia una società non a misura d’uomo, che genera discriminazione non meno disumana di quella in base al sesso, all’etnia o alla religione.”

L’elemento centrale in economia deve essere la persona umana nella sua completezza, la nuova società che dobbiamo volere non potrà più tollerare che si continui a parlare di “risorse umane”, alla stessa stregua di come si parla di risorse finanziarie e risorse naturali.

 

A mio avviso questa crisi deve portare non solo a formulare alcune adeguate regole per evitare gli eccessi disastrosi del libero mercato, ma a un cambiamento di mentalità, a una nuova solidarietà per ritornare alla “buona economia” a una “economia etica”, come suggerito concretamente dagli autorevoli autori sopra menzionati. E’ arrivato il momento di puntare tramite una serie di interventi a ridurre la drammatica disuguaglianza scavata in questi anni tra gli italiani, realizzando una nuova società relativamente egualitaria e attenta al merito, supportata da istituzioni che limitino gli eccessi di ricchezza e povertà. Gli ingenti perdite economiche causate dai macroscopici errori commessi anche dai nostri politici ed economisti, oggi improvvisamente convertiti all’etica economica e allo “Stato regolatore e pagatore”, inevitabilmente saranno pagati da tutti noi. Un pesante deficit che non sarà coperto da nuove tasse, non sarà sanato “mettendo le mani nelle tasche degli italiani”, ma renderà più poveri i due terzi di italiani in quanto toglierà enormi risorse per interventi a favore dei meno abbienti, per migliorare e rendere meno onerosi i servizi sociali, per migliorare la nostra qualità della vita, ecc. Pertanto è doveroso pretendere già oggi da tutte le realtà politico-economiche concrete politiche di eguaglianza, con una equa ridistribuzione della ricchezza e dei futuri profitti.

Giovanni Agnesi

 


 



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