19 febbraio 2014

sipario – SCRIVERE TEATRO OGGI: EDOARDO ERBA


 

INTERVISTA A EDOARDO ERBA

Fino a pochi giorni fa avevi due testi contemporaneamente in scena a Milano, Vera Vuz al Teatro Out Off e Italia anni ’10 al Teatro Ringhiera. La simultaneità è un caso dovuto a esigenze produttive oppure è stata una scelta voluta? È stato un caso che poi abbiamo fatto risultare come una necessità. I due progetti hanno avuto genesi autonome ma poi due teatri si sono incontrati e, visto che avevano tutti e due voglia di fare un fuoco sul mio lavoro, si sono messi a farlo insieme. Io sono molto contento perché non erano due teatri che si parlavano molto, quindi spero che la collaborazione – al di là di me – vada avanti in futuro. Io sono sempre per aprire dei ponti di comunicazione e non chiuderli, quindi questo mi ha fatto molto piacere.

sipario07FBSono testi nuovi che hai scritto apposta per la Senigallia e per Loris?
Italia anni ’10 sì, è stato scritto apposta per la compagnia di Serena. Lei mi aveva precedentemente chiesto di adattare Ribellioni possibili, ma era un testo che più che riadattato andava riscritto. Era un testo che non mi piaceva molto, poi loro ne hanno fatto un bellissimo spettacolo, ma io non volevo metterci le mani, preferivo scriverne uno nuovo sugli stessi temi, e cioè le ripercussioni sociali della crisi economica. E così è stato. Avevo due indicazioni di partenza: la tematica, appunto, e gli attori, che erano quelli della compagnia ATIR. Poi abbiamo lavorato insieme e c’è stata una dialettica molto sana e molto affettuosa, ci siamo trovati decisamente bene e io sono contento del risultato.

Tutto diverso il lavoro di Vera Vuz, che invece ho scritto in maniera assolutamente solitaria, nell’estate del 2011 quando stavamo per andare in Africa a prendere il terzo figlio che adesso è integratissimo con noi ed è un membro importante della famiglia, quindi ho scritto il testo quasi trovando un isolamento forzato da una vicenda in quel momento molto turbinosa. È un testo che ritorna alle mie origini, al dialetto che sentivo quando ero piccolo. È stata un’esperienza di scrittura veramente emozionante. Io non mi emoziono mai quando scrivo, di solito gioco e mi diverto, invece in questo caso avevo spesso il magone, perché ogni parola mi ricordavo un pezzo di mondo che avevo dimenticato. Quando l’ho terminato mi sono detto: “questo lo possono fare solo degli amici, delle persone che mi conoscono e mi capiscono bene”, e ho pensato subito a Loris che è un amico di vecchissima data e un regista che stimo molto, e oltretutto avevamo già fatto un lavoro insieme a Fiume, Dramma italiano, che lui aveva diretto in maniera splendida. Lui ha accettato. Io ho detto: “sarebbe bello farlo con Mario e Gigio”, ma non era facile perché Gigio è molto impegnato, però siamo stati fortunati che in quel periodo era libero e ha accettato di farlo, anzi ha dato anche un contributo ad alcuni dettagli del testo.

Di solito da cosa parte la tua scrittura? Se guardo indietro vedo che alcuni seguono un filone, alcuni un altro e altri un altro ancora, però in generale c’è un po’ sempre l’esigenza di sfidarsi su un terreno nuovo. Diciamo che ho cercato di non essere uno di quelli che riscrive sempre lo stesso testo, ma ho cercato di fare cose molto diverse perché così sono più stimolato a farle. Ho scritto anche uno spettacolo musicale, tre spettacoli dialettali – due in romanesco e appunto Vera Vuz, uno spettacolo decisamente grottesco, Vizio di famiglia, uno quasi di epica contemporanea che è Italia anni ’10, parecchi testi a due, qualche testo comico, uno scientifico a cui tengo molto, In treno con Albert, insomma ho cercato di sfidarmi su vari terreni perché questa è la maniera per me per rimanere vivo, per non annoiarmi del mio lavoro.

Ti è mai capitato di dover scrivere cose che non avevi voglia di scrivere? E quando ti capita – per commissioni, scadenze o qualsiasi altro motivo – come fai a mantenere viva la creatività? Sì, capita spesso. Non mi è mai capitato nel teatro, perché il teatro è sempre stato l’ambito della mia libertà: ho sempre scritto quello che ho voluto e non mi sono mai trovato costretto a lavorare controvoglia. Invece in tante altre situazioni mi è successo, ad esempio per articoli che mi venivano chiesti, interventi su riviste o giornali … cose che non hai nessuna voglia di fare, alle quali però non puoi dire di no, perché magari te lo chiedono amici o persone di cui sai che in futuro potrai avere bisogno e quindi non vale la pena rifiutare. Poi mi è capitato di scrivere cose che non avevo voglia quando ho fatto lavori per la pubblicità, per le aziende o per la televisione, e lì è ancora più complicato. Non sai mai come uscirne, e cerchi di trovare almeno qualcosa che possa piacerti, per riuscire ad avere quel po’ di energia e di creatività che ti permetta di farcela. Certe volte funziona la disperazione, cioè quando non voglio fare una cosa me la riduco all’ultimo secondo, come un’interrogazione che non vuoi preparare a scuola, e poi ho talmente poco tempo che non riesco neanche a pensare “non mi piace”, devo buttarmi e basta, altrimenti sarebbe il disastro. Con la televisione mi è capitato tante volte di trovarmi all’ultimissimo momento e quindi ricavare l’energia necessaria dalla disperazione.

Com’è cambiato il tuo immaginario e la tua scrittura negli anni? Da La notte di Picasso e Maratona di New York, scritti all’inizio degli anni ’90, fino ai tuoi ultimi testi? Si cambia e bisogna star dietro a questo cambiamento. Io ho cercato di non rimanere prigioniero di me stesso, soprattutto di Maratona di New York, che è stato il testo che mi ha fatto conoscere e che ha avuto più successo non solamente in Italia ma anche nel mondo, che continuano a chiedermi e che un po’ mi ossessiona. Però ho cercato di fare cose totalmente diverse, anche a prescindere da quello. Altri preferiscono battere sulle stesse note e se non si annoiano a farlo fanno bene, ma per me sarebbe stato sbagliato. Poi io dentro un filo lo vedo, ed è in evoluzione, così come la visione del mondo è in evoluzione: forse da giovane ero più pessimista e adesso lo sono di meno, paradossalmente, forse allora la fantasia era più stimolata dall’idea della morte, adesso che forse la morte è più vicina sono più stimolato dalla forza dell’amore.

Com’è il tuo rapporto con i registi? Ti affidi completamente o preferisci seguire le prove e “controllare” la messa in scena? Contrariamente a quello che si pensa, seguire le prove non porta mai tanto bene. Quello che ho verificato è che conviene lavorare un po’ prima con il regista, a vari livelli, o mentre il testo è in formazione oppure a tavolino, ma dopo lasciar condurre a lui le prove. L’autore è un personaggio troppo ingombrante alle prove, a meno che non ti venga esplicitamente richiesto. Questo naturalmente se c’è, come ci si auspica sempre, un rapporto di fiducia con il regista. Se c’è un rapporto di sfiducia invece … beh, in quel caso non avresti dovuto sceglierlo. A me è capitato qualche volta ed è terribile, perché si crea quel malumore costante che c’è fra il padrone di casa e l’inquilino: l’inquilino dice “Pago l’affitto, quindi faccio come mi pare, cosa vuole?”, il padrone di casa invece “Ma come? Sta facendo il padrone in casa mia? Rimane pur sempre casa mia”. E da questa dialettica di scontro non esci, può solo peggiorare. Fortunatamente non mi è capitato molte volte, ma è capitato.

È un buon momento, secondo te, per la drammaturgia italiana? Guarda, trovo che non sia un cattivo momento per la drammaturgia contemporanea in generale. Anche se noi in effetti della drammaturgia internazionale abbiamo poche notizie, perché non c’è più Ubulibri che la pubblicava e pochi teatri se ne occupano. I sedicenti drammaturghi italiani fanno delle grandi battaglie perché si faccia la drammaturgia italiana, io non ne ho mai fatte: si fa la drammaturgia di valore, che sia italiana o internazionale. La cosa importante è fare drammaturgia contemporanea, perché serve vedere qual è lo sguardo dei contemporanei su loro stessi. Se in Italia non c’è niente di bello non si fa niente, si fanno gli inglesi o gli ungheresi, chi se ne frega. Insomma, bisogna meritarlo il fatto di andare in scena. Però indipendentemente da questo credo che sia un buon momento perché vedo delle cose abbastanza buone, soprattutto nella nuova generazione di autori. Io non mi ci metto in mezzo, faccio parte di una generazione precedente. Mi riferisco ad esempio a Fausto Paravidino, Stefano Massini, Letizia Russo, Michele Santeramo … sono ragazzi in gamba, sono bravi e complessivamente esprimono una qualità maggiore di quella che esprimeva la generazione precedente, dove c’erano alcuni buoni – io spero di essere stato fra i buoni – e molte pippe. Invece adesso mi sembra appunto che la qualità generale sia migliore e ci sono giovani talenti che si fanno strada anche in Europa quindi, rispondendo alla tua domanda, sì, credo che sia un buon momento. Rispetto al cinema italiano, ad esempio, che produce capolavori come La grande bellezza ma anche tanti film mediocri, secondo me la qualità media della drammaturgia italiana è superiore.

Emanuele Aldrovandi

 

 

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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