12 febbraio 2014

PER LA BELLEZZA DI MILANO L’ARREDO URBANO NON BASTA


Basta percorrerle a piedi le strade e le piazze di Milano. Quelle del centro o di qualche angolo della periferia. E ci si rende subito conto che la loro bellezza o bruttezza non dipende più di tanto dall’arredo urbano. O almeno, non solo da questo. Certo, ci sono luoghi dove tutto sembra più indovinato, armonioso. Una panchina verde all’ombra di un albero, un lampione di buona fattura che rischiara un marciapiede, una discreta fermata del bus o del metrò. Altri – la maggior parte – dove al contrario molte cose appaiono sgraziate e sgradevoli. Troppi “panettoni” di cemento messi chissà come, su e giù dai marciapiedi. Improbabili cestini dei rifiuti. Fioriere balzane. Un’incredibile infinità di pali per la segnaletica. Ingombranti verande di bar e ristoranti. Per non parlare di certi manifesti enormi, di alcune insegne luminose sguaiate o di quegli smisurati monitor pubblicitari che ogni tanto vengono sistemati sulle facciate dei monumenti più belli. Tanto chiassosi e invasivi da cambiare, di sera, il colore delle case tutt’intorno. Da avvolgere ogni cosa in una luce vivida e innaturale. Da risucchiare in un vortice catodico la realtà che ci circonda. Ne abbiamo subiti in piazza del Duomo, in piazza della Scala. Ce ne sono all’angolo tra via Borgogna e via Durini.

07riboldazzi06FBDiscutere dell’arredo urbano di Milano è dunque importante, forse addirittura necessario ora che Milano – ci raccontano con melensa retorica i giornali – si prepara a presentarsi al mondo con l’Expo. Tuttavia se veramente vogliamo una città più bella, probabilmente dovremmo prendere il discorso un po’ più alla larga, guardare le cose un po’ più da lontano. Considerare altri fattori. E infrangere perfino qualche tabù. Per centinaia di anni in Italia e in Europa si sono costruiti spazi aperti urbani la cui bellezza ancora ci incanta. E il mondo ci invidia. Una bellezza che in primo luogo viene dalla loro forma e dai loro materiali, dalle architetture che li definiscono, dall’uso che ne viene fatto. Si tratta, in un numero infinito di casi, di una lezione di civiltà prima ancora che di “urbanità”. Una lezione che si è dissolta nel novecento, specie dal secondo dopoguerra quando il vento della modernità ha spazzato via un sapere diffuso maturato nei secoli. Un’abilità che è andata in fumo e, salvo rare eccezioni, non è più stata riconquistata. Dai progettisti, da chi amministra la cosa pubblica e dalla collettività che, di fatto, non l’ha più né pretesa né nutrita. Questo a dispetto dell’ossessiva ricerca estetica che caratterizza la nostra società che qui a Milano ha uno dei suoi capisaldi per quanto attiene la moda e il design.

Le strade e le piazze dei tessuti urbani realizzati a Milano nel secolo scorso – cioè gran parte di quelli della nostra città, quelli dove la maggior parte di noi vive – sono frequentemente informi, frammentate, difficilmente identificabili come tali. Pavimentazioni, marciapiedi e cordoli sono realizzati con materiali scadenti, manutenuti approssimativamente, spesso dissestati, sconnessi. Le architetture che dovrebbero determinarne la forma in realtà sembrano ignorarle: mantengono una distanza e un orientamento tali da non comunicare alcuna volontà di partecipazione alla definizione di una qualche fisionomia coerente e tantomeno alla vita che in essi scorre. E l’uso che viene fatto di molti degli spazi pubblici della Milano moderna rimanda a tutto fuorché alla socialità. Le auto la fanno generalmente da padrone. Parcheggiate o in circolazione sono una presenza ingombrante. Occupano la maggior parte dello spazio. La loro invadenza visiva e sonora è tale da renderle uno dei principali elementi di imbarbarimento dei luoghi urbani della nostra città.

Insomma, in un tale desolante panorama la presenza o meno della panchina o del lampione disegnati dall’architetto o dal designer di grido influisce sì e no sulla qualità e la bellezza degli spazi pubblici. Certo conta, perché qualsiasi cosa può peggiorare una situazione già precaria o dare un minimo di sollievo in contesti afflitti dal degrado. Ma non è questo il fattore risolutore di una situazione critica per ragioni assai più profonde. Non è con i monili che possiamo pensare di nascondere un corpo sfatto dal tempo o un abbigliamento sgualcito. È da una riflessione di più ampio respiro – sull’architettura, il disegno urbano, il concetto si spazio pubblico, la possibilità di un comune sentire estetico – che probabilmente dovremmo ripartire. È assumendo con oggettività la lezione della storia – quella delle cose riuscite e quella dei fallimenti – che forse possiamo immaginare un futuro migliore per gli spazi aperti della nostra città. È dall’ascolto dei contesti urbani e sociali che possiamo trarre l’energia per soddisfare l’umano desiderio di bellezza.

 

Renzo Riboldazzi

 

IL DIBATTITO SULL’ARREDO URBANO 

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