29 gennaio 2014

PERIFERIE MILANESI: DAL SENATO ALLA TV. LA GRANDE BELLEZZA?


Chi si aspettava di sentire da Renzo Piano, ospite di Lilli Gruber, folgoranti novità, forse è rimasto un po’ deluso: dire cose nuove sul problema delle periferie è praticamente impossibile. Ma la piccola delusione è stata largamente compensata dal suo entusiasmo, dalla serenità e dalla sicurezza con la quale si è aggirato in questo labirinto dei quartieri degradati delle città. Nell’ultima parte dell’intervista, incalzato dalla Gruber perché confessasse quelle che riteneva le sue virtù, ne indicò senza esitazione una: la sua ostinatezza.

01editoriale06FBE di questo dobbiamo ringraziarlo perché solo per questa sua ostinatezza è riuscito a far entrare in Senato un laboratorio dedicato alle periferie: alle periferie da “rammendare”, uno dei temi anche a me più cari. Parlandone ci ha fatto sognare, ci ha fatto immaginare una città: “La grande bellezza” milanese. Lo vorremmo? Sì certo. Lo possiamo? Ne dubito.  Detto questo vorrei fermarmi su alcune tra le moltissime cose dette da Renzo Piano, una più importante dell’altra: le nostre città non possono più crescere occupando nuovo territorio; le nostre città per sopravvivere sono destinate a crescere su se stesse; le nostre città devono essere mantenute.

Parliamo ora di Milano. Le prime due affermazioni appaiono un po’ in contrasto col messaggio lanciato a proposito delle periferie che si dovrebbero ” rammendare “ inserendovi del verde, degli spazi collettivi – le piazze- e collocandovi funzioni pregiate.”. Tutto questo nella città costruita? A Milano?  Utilizzando quel poco che ci rimane dalla delocalizzazione industriale o dalla dismissione di demani ferroviari? Forse non basterà. Milano, ma tutta l’Italia, è fatta di case in proprietà, case unifamiliari e condomini: le trasformazioni urbane nel costruito sono imprese spesso disperate.

Quanto alla manutenzione della città, intesa non solo come insieme di edifici, ma anche come territorio infrastrutturato, non si può essere più d’accordo con Piano ma anche qui vedo qualche problema. Negli anni del cosiddetto ”boom edilizio”, ma anche dopo, seppure meno, si sono commessi due delitti: si è costruito così male che dopo pochi lustri conviene abbattere le case piuttosto che ristrutturarle; i lavori di infrastrutturazione sono stai eseguiti ancor peggio e tutti ci hanno rubato.  Qui non si tratta più di mantenere ma di “sostituire”. Abbiamo le risorse sufficienti? Avremo mai le risorse sufficienti in un Paese nel quale la politica economica e l’evasione fiscale hanno concentrato tutta la ricchezza nelle mani del 10% della popolazione? Certo, rammendare le periferie è indispensabile ma le periferie reggono il rammendo se il tessuto sociale di chi le abita non è troppo logoro: questa è la condizione e non è vero il contrario, o almeno non è sufficiente: una periferia degradata non si risolleva solo con operazioni di rammendo edilizio-urbanistico.

La questione è dunque molto complessa e la serena fiducia e l’ottimismo di Renzo Piano ci dà sì la forza ma non la soluzione completa.  È vero, lui per primo ha detto che parliamo di tempi lunghi – e la burocrazia ci mette del suo ad allungarli – ma la pazienza ha un limite, come sanno i demagoghi. In giro se ne vede ancora uno, quello che diceva un paio d’anni orsono: “tutto va bene, basta guardare i ristoranti che sono pieni.”. E se a riempirli fosse quel famoso 10% con i suoi amici? In ogni caso, anche se la soluzione completa Renzo Piano non ce la offre, dobbiamo continuare a progettare una città di architetture, strade, piazze e una città di società. Io direi, contraddicendo un vecchio adagio pessimista: “prepariamoci al meglio!”. Verrà.

Luca Beltrami Gadola

 

 



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