29 gennaio 2014

CLAUDIO ABBADO: LA SCOMPARSA DI UN VERO MAESTRO


Sono stato a Bologna a dare l’estremo saluto, come si usa dire, a Claudio Abbado, nella commovente chiesetta ove era stata deposta la bara, nella silenziosa minuscola piazza dove aveva la sua ultima residenza e dove un numero incredibile di persone è stato in coda al freddo in attesa di compiere lo stesso gesto. Voglio raccontare questa esperienza e descrivere – senza retorica – i pensieri che hanno affollato la mente mia e probabilmente quella di tutti coloro che hanno voluto e potuto essere lì in quei due giorni.

06viola04FBIn un momento in cui apparire è tutto ed essere è poca cosa, Abbado è stato; si è limitato ad apparire quanto bastava per esercitare il suo mestiere, sul podio, ma già al momento degli applausi, prima e dopo un’esecuzione, diventava evidente l’imbarazzo di doversi mostrare. Ma non era né timido né affettato cultore dell’understatment; era semplicemente schivo, privo di vanità, interessato alla sostanza delle cose e disinteressato alla mondanità. Aveva un atteggiamento francescano ma laico e se una religione ha mai coltivato è stata esclusivamente quella della musica, per la quale si può veramente dire abbia vissuto e sia sopravvissuto, a dispetto della sorte.

Ciò che disturba e irrita, più o meno consapevolmente, nella figura del direttore d’orchestra, è la sensazione ch’egli più che servire la musica goda nell’esercitare potere, operi per compiacere il proprio ego, usi la musica per soddisfare se stesso; Abbado dava di sé una immagine del tutto opposta, sembrava l’umile servo della musica, l’instancabile ricercatore delle sue profondità, vi era in lui una forma di misticismo e di ascesi verso gli estremi orizzonti dell’umano.

Questi pensieri che sempre affioravano quando lo si ascoltava in concerto o all’opera, l’altro giorno, in quella piazza e in quella chiesa di Bologna, hanno preso forma e peso, si sono materializzati, sono diventati immagini reali e stati d’animo palpabili. Era in una chiesa ma non era credente, solo rispettoso, e non ha voluto un vero funerale, tantomeno religioso; dei grandi musicisti si visitano abitualmente le monumentali sepolture, ma le sue ceneri saranno disperse; viveva a Bologna dopo aver vissuto nelle capitali mondiali della musica, per essere più appartato e per potersi concentrare in una dimensione che gli appariva più umana; la sua casa-rifugio non era in luogo rinomato ma in una sperduta baia della Sardegna occidentale; la vita, molto complicata, lo ha portato ad avere diverse compagne e figli di diverse madri, ma tutte e tutti erano lì a salutarlo, nel regno di quell’armonia che coltivava con la musica; e va ascritto a tutti loro il merito di averne interpretato perfettamente la sobrietà – e di averla difesa fino all’ultimo istante – con la compostezza dei riti e dei saluti.

Nella chiesetta romanica di Santo Stefano, intorno a una bara di legno grezzo senza targhe né fiori, poggiata su bassi cavalletti, vi erano cinque piccoli mazzi di girasoli su vasi poggiati a terra, quattro sedie e quattro leggíi (allo scoccare di ogni ora vi si avvicendavano giovani musicisti delle sue orchestre, gli occhi rossi, maglioni e zainetti), i gonfaloni a lutto delle città di Milano e di Bologna in un angolo discreto della navata laterale (per non invadere la scena) e poggiata a una colonna la corona di fiori di Napolitano (semplici rose, rosse e bianche, unica nota di ufficialità). Un’atmosfera surreale ma sentimenti reali di dolore e di partecipazione, con musica diffusa a volume bassissimo (probabilmente registrazioni di suoi concerti in cui si riconosceva molto Schubert ma era difficile distogliere la mente per ascoltarla) e poche parole appena sussurrate, in tante lingue diverse.

Ovviamente nessuno ha osato fotografare o filmare, o peggio ancora applaudire; nessuno che si sia meravigliato o sorpreso nel vedere tanti personaggi arcinoti, in coda come tutti gli altri fra gente seria, composta, ricca di umanità e di consapevolezza.

Eravamo assorti in questi pensieri, in un dolente e rispettoso silenzio, quando da una porta laterale della chiesa sono entrate una ventina di persone in abiti dimessi, si sono poste ordinatamente in cerchio dietro la bara, davanti al rustico altare: era il coro dei carcerati bolognesi venuti a ringraziare il loro maestro con un ultimo concerto, musiche bellissime e poco note, in parte eseguite a cappella e in parte accompagnate da un quartetto d’archi, tutte cantate con grande professionalità e soprattutto con evidente affetto. Dopo l’ultima nota qualche minuto di silenzio e poi, uno a uno, verso l’uscita dalla chiesa e via, sul cellulare che li riportava in cella.

Questo era Claudio Abbado, uno dei più grandi musicisti viventi fino a ieri, conosciuto e stimato in tutto il mondo, il maestro che arrivato sul podio dei Berliner esordì dicendo: “kein Titel, ich bin Claudio“.

* * *

Milano lo ha celebrato decorosamente, con le parole del Sindaco, persino quelle (non scontate) del presidente della Regione, e con tutte le Istituzioni musicali che hanno avuto parole degne e appropriate; sul piano prettamente musicale tre sono state le iniziative più importanti.

Alla Scala lunedì sera Barenboim ha eseguito con una Filarmonica più concentrata e disciplinata del solito – e nel solco di una bella e nobile tradizione – una commossa e mesta marcia funebre (il secondo tempo della Terza di Beethoven) con la sala del teatro vuota, le porte aperte e un meraviglioso popolo commosso, migliaia e migliaia di persone che hanno inverosimilmente riempito la piazza e tutt’intorno.

All’Auditorium, invece, l’orchestra Verdi – molto meno concentrata e disciplinata del solito – gli ha dedicato il concerto in programma con la Seconda Sinfonia di Mahler, la “Resurrezione”, dando purtroppo mediocre prova di sé (una modesta esecuzione affidata al direttore meno adatto, per nulla all’altezza del compito assegnatogli, che si è persino dimenticato di dire una parola su Abbado).

La città recupererà però domenica 2 febbraio al Piccolo Teatro Strehler, purtroppo a posti già esauriti (speriamo vi siano delle repliche), proiettando il film dell’indimenticabile “Viaggio a Reims” di Rossini, uno dei risultati più intensi e significativi della strada percorsa dal magico direttore. Che ci piacerà ricordare proprio così, divertito come un bambino dall’opera che lui stesso stava concertando e dirigendo.

 

Paolo Viola



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