23 giugno 2009

IL FUTURO DELLA SINISTRA TRA DARWIN E MONOD


Darwin non è popolare a sinistra e la colpa è del darwinismo sociale. Sumner (1840-1910), ideologo di questo movimento, sosteneva che “i milionari sono un prodotto della selezione naturale, che agisce tra tutti gli uomini, scegliendo quelli che posseggono le facoltà richieste per un determinato lavoro”. E John Rockefeller Senior rincarava la dose: “L’incremento di una grande azienda è soltanto un caso di sopravvivenza del più adatto…Non è che l’esplicazione di una legge di natura, una legge di Dio”. Prima di loro Marx, che era certamente più acuto, aveva accolto con tanto favore la pubblicazione dello scritto di Darwin sull’origine delle specie da voler dedicare al naturalista inglese il secondo volume del Capitale, onore che fu garbatamente rifiutato dall’interessato. Il punto importante è che i darwinisti sociali trascuravano il fatto che il più adatto non è necessariamente il più forte o il più prepotente, ma il più resistente e, in quanto tale, il più favorito nel dare origine a una prole numerosa. I grandi dinosauri, compresi i più feroci carnivori, si sono estinti da circa 60 milioni di anni, mentre sopravvive come specie la tartaruga di acqua dolce che già esisteva ai loro tempi.

 

E tuttavia il pregiudizio che attribuisce a Darwin delle giustificazioni scientifiche per l’esistenza delle sopraffazioni che sono all’origine delle disuguaglianze umane è duro a morire. Tanto che in campo politico sono fiorite teorie ispirate, non si sa quanto consapevolmente, al pensiero del suo precursore e antagonista scientifico Lamarck, che sosteneva che l’evoluzione deriva dall’accumularsi attraverso le generazioni di caratteri acquisiti modellati dall’ambiente. Per Darwin, invece, le alterazioni degli organismi che sono ereditabili emergono a caso e l’ambiente non fa altro che selezionare quelle che sono più adatte alla sopravivenza degli organismi che le posseggono.

Un esempio chiaro di Lamarckismo politico furono le teorie genetiche dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, che valorizzarono in campo biologico l’ereditabilità dei caratteri acquisiti, come sostenuto da Lysenko e Miciurin. Queste idee andavano benissimo d’accordo con l’intento del regime di plasmare, con l’esercizio di un violento autoritarismo, i cittadini del mondo nuovo che s’intendeva costruire. E il peccato di lamarckismo non si verificò solo a sinistra, giacché anche Mussolini e Hitler lo praticarono.

 

E’ ben noto che la scienza ha dato torto a Lamarck e ragione a Darwin, dato che i caratteri acquisiti non possono essere ereditati e le mutazioni, che emergono a caso, sono invece ereditabili. Ma non è qui importante il discorso biologico, quanto riflettere sulle implicazioni politiche, e non solo, del darwinismo. Vi sono stati, infatti, scienziati come Monod e Dawkins che hanno sviluppato l’idea di un’evoluzione culturale con meccanismi analoghi a quelli dell’evoluzione biologica. In questo modello ciò che si evolve non sono i geni, ma le idee, e la loro riproduzione non avviene per ricopiatura di materiale biologico, ma attraverso la comunicazione parlata o scritta; il ruolo del caso è sostituito dalla libertà. Infine, la selezione fa in modo che alcune idee siano più accettate e altre respinte e che perciò si abbia una loro evoluzione. E’ intuitivo che le idee che sono percepite come favorevoli alla sopravvivenza e al benessere di chi ne prende conoscenza siano più accettate e si diffondano più facilmente, ma il percorso di questa evoluzione è lontano dall’essere lineare e anche sulla sopravvivenza e il benessere gli esseri umani possono essere inclini ad accettare idee differenti.

 

Ma questo è un discorso complicato che ho affrontato solamente per sostenere che la politica è l’evoluzione culturale in atto e che senza idee non si fa politica. E’ stata di moda negli ultimi tempi una dura polemica contro le ideologie. Si può concordare se per ideologia s’intende un sistema rigido pervasivo di ogni attività, ma non si possono rifiutare le idee. Se guardiamo al passato, vediamo che tutti i più importanti movimenti politici, dal liberalismo al socialismo e al cattolicesimo democratico, erano nutriti d’idee originali. Persino l’attuale berlusconismo ha un suo nucleo ideale di tipo utilitaristico-edonistico, per me molto sgradevole, ma, come si vede, bene accolto dalla maggioranza degli italiani che vanno a votare. Ma, se ci si rifà all’evoluzione culturale di tipo darwiniano, vediamo che sono le idee che generano i movimenti politici, in quanto accettate da un numero sufficiente di persone, e non il contrario. Penso che questo sia il problema del neonato Partito Democratico. Nato da due componenti unite da un comune valore, che è il sostegno dei ceti sociali più deboli e la solidarietà, ma non da una nuova idea unificante. In effetti, anche per quanto riguarda il valore comune, questo nelle due componenti aveva in passato un’ispirazione molto diversa. Mi sembra che sia mancata un’idea nuova che operasse una sintesi, che avrebbe avuto invece un grande potere di attrazione.

 

Certamente i democratici hanno fatto molti errori, ma questi avrebbero avuto conseguenze molto più lievi se avessero operato alla luce di una nova idea-forza, qualcosa di paragonabile all’emergenza di una nuova specie nell’evoluzione biologica. Forse per questo s’invocano i giovani, perché si sa che amano le idee nuove.

A mio parere la sintesi più difficile riguarda la questione del laicismo e del clericalismo.

Tempo fa è comparso su “Repubblica” un articolo di Giancarlo Bosetti che, in polemica con Piergiorgio Odifreddi, sosteneva che il laicismo non s’identifica con l’ateismo. Pur essendo, da vari punti di vista, un ammiratore di Odifreddi, io sono perfettamente d’accordo con quanto scritto da Giancarlo Bosetti. Io credo che del laicismo si possa dare una definizione semplicissima indicandolo come quella posizione ideale che ritiene che la virtù debba essere praticata per convincimento e non per costrizione.

Nella vita sociale la costrizione è attuata mediante le leggi ma credo che sia ampiamente accettata l’idea che le leggi, almeno in uno stato democratico e liberale, non sono emanate per affermare principi etici superiori, ma per tutelare i cittadini individualmente (diritti) o collettivamente (doveri), e quindi hanno fondamentalmente una funzione pratica. E’ certamente vero che molte leggi coincidono con prescrizioni, per così dire, “virtuose”, almeno dal punto di vista della maggioranza di chi le deve osservare. Per esempio, questo è il caso della repressione del furto, dell’assassinio e di tutte le forme di delinquenza. Ma questo accade perché, se la delinquenza non fosse repressa, non sarebbero tutelate le sue possibili vittime. Esistono altri comportamenti immorali che possono recare danno al prossimo, per esempio la menzogna e l’ipocrisia, ma questi non sono sanzionati dalle leggi perché sarebbe impossibile definirli e individuarli e delle leggi che volessero perseguirli sarebbero facilmente strumento di arbitrii e di persecuzioni.

 

Io credo che questo modo di vedere le cose, che non è certamente originale, sarebbe una buona premessa per elaborare un nuovo stile di pensiero che valorizzi non solo la libertà, ma anche le esigenze umane (la giustizia) che portano ad accettare o respingere le idee liberamente dibattute. Per spingere fino in fondo l’analogia darwiniana, la libertà, come si è detto, avrebbe il ruolo del caso e la giustizia quello della necessità. “Il caso e la necessità” è il titolo di un fortunato libro scritto nel 1970 dal Premio Nobel francese Jacques Monod. Forse i politici hanno fatto male a disinteressarsene.

 

Claudio Rugarli



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